Baikal
BAIKAL
Quella mattina si svegliò particolarmente turbato e stanco, aveva fatto uno strano sogno, lungo, interminabile, o così gli era sembrato; in effetti era un po’ di tempo che faceva quegli strani sogni o forse incubi, che poi lo perseguitavano per tutto il giorno. Aprì gli occhi e vide la sua solita, ordinata e banale camera con grandi armadi bianchi, simmetrici quadri alle pareti, il letto mai disfatto pur avendoci dormito una intera notte, la televisione ancora accesa che trasmetta canzoni rap, insulse, canzoni da cacasenno che, con la loro filosofia spicciola e retorica, cercano di insegnarci a vivere. Con il solito movimento meccanico andò in cucina, si fece il caffè e, pur avendo voglia di una calda brioche alla crema, si mangiò i suoi soliti biscotti del Mulino bianco, si accese la prima delle sue quaranta sigarette giornaliere e andò in bagno.
Mentre si radeva, gli vennero in mente spezzoni confusi del sogno: cercò di ricomporre quel puzzle, cercando di dare una logica e una cronologia a quel caos di pensieri ed eventi, di persone che pensi di conoscere, ma che nella realtà sono del tutto diverse. Più pensava di ricordare, più le nebbie si infittivano, più tutto usciva da quello schema logico della vita reale.
Quand’ebbe finito di radersi, si guardò con attenzione allo specchio e non si piacque. Si rese conto che era tanto tempo che si specchiava, ma che non si vedeva. Troppo tempo! Quello che vide quel giorno non era quello che si aspettava, era quello che non avrebbe mai voluto vedere. Come era accaduto? Dov’era finito quel brillante e affascinante uomo che era? Dove erano finiti i suoi sogni e le sue ambizioni? Cosa era successo?
Continuò a pensarci anche mentre si vestiva, anche mentre metteva in atto quell’abitudinario rituale mattutino, concepito per meglio apparire, per dare di sé un aspetto ordinato e pulito. Gli eventi disordinati del sogno continuavano a girargli per la mente e, pezzo dopo pezzo, ricordava quanto nel sogno lui fosse diverso dalla realtà, quanto fosse più libero, meno convenzionale e sfacciatamente diretto. Come se le convenzioni del vivere civile fossero state travolte e inghiottite dal caos. Un mondo parallelo, tanto credibile, a modo suo, da far dubitare quale dei due fosse il mondo reale.
Massimo, quel giorno, compiva 50 anni. Un metro e ottantacinque di altezza su un fisico asciutto e atletico, cortissimi capelli brizzolati, occhi verdi, sorriso infantile e accattivante, sempre abbronzato. Ex pilota di auto e moto, pittore per vocazione, commerciante per passione e per necessità. Molte storie d’amore e avventure, due matrimoni finiti, una vita movimentata, brillante e dispendiosa. Il suo capolavoro: una figlia di 15 anni!
Mentre stava per uscire gli squillò il telefono, guardò chi lo stesse chiamando e gli tornò il sorriso. “Tanti auguri papà. Volevo chiamarti subito dopo mezzanotte, ma mi sono addormentata.” Era Federica, sua figlia. “Grazie amore, sei comunque la prima a farmi gli auguri. Come stai?” Lei, rispose: “Tutto bene, tutto bene! Ho una interrogazione di inglese, ma credo che non andrà molto bene. Non ti arrabbiare se troverai un cinque sul registro elettronico.” Massimo, cercando di impostare un tono di voce da genitore, disse: “Come al solito ti dai sempre per perdente prima ancora di iniziare e questo è un atteggiamento psicologico che non ti favorisce, inoltre se passassi meno tempo sul cellulare e un po’ più sui libri forse riusciresti anche a prendere un sei. Comunque, grazie di avermi dato la prima notizia brutta della giornata.” Federica, col suo solito tono irritato e aggressivo, disse: “Oh, ma adesso devi famme sentì in colpa. C’ho un sacco da studià! Non ce la faccio. Poi se prendo un cinque mica more nessuno.” Massimo, infastidito dal tono, disse: “Non gridare e parla italiano, non come una coatta e qualche volta, almeno quando sei in torto, prova a scusarti.” Lei, sempre più innervosita, disse: “Era meglio che non ti chiamavo. Vabbè, tanti auguri.” Chiuse la telefonata. Massimo sapeva che era una battaglia persa in partenza, che quel suo carattere aggressivo era la conseguenza di una profonda insicurezza e dell’adolescenziale tempesta ormonale che la stava attraversando. Avrebbe voluto un dialogo più sereno e costruttivo, senza toni di voce alti e senza invalicabili muri a separarli, ma, forse, era solo una questione di tempo, forse tra qualche anno sarebbe cambiata.
Lo sperava davvero tanto, non per lui, ma per il bene di sua figlia. L’amava così tanto che vederla infelice, arrabbiata con sé stessa e col mondo, lo rendeva molto triste. Si chiedeva sempre dove avesse sbagliato, se avrebbe potuto fare di più e meglio, ma questa, credo, sia la domanda che si pone ogni genitore.
Uscì di casa in compagnia dei suoi pensieri e passò al bar a prendere un altro caffè, di quello buono. “Ciao dottò, ti faccio il solito leggermente lungo?” Gianni, il barista, lo conosceva da molti anni e per lui Massimo era un vero idolo, un esempio da seguire. Nonostante fosse un ragazzone di trentacinque anni, semplice, esuberante e un po’ coatto, era intelligente e sensibile. Ogni volta, facendoglieli notare, coglieva piccoli particolari del suo abbigliamento e con tono basso, cospiratorio, diceva: “Non c’è niente da fa, c’hai un’altra classe, una marcia in più. Se rinascessi vorrei esse come te.” Poi, rivolgendosi agli altri clienti al banco, diceva: “Questo è uno forte, mica un poveraccio come voi.” Massimo ogni volta gli sorrideva imbarazzato, ma grato delle sue attenzioni e del suo disinteressato affetto.
Era la classica mattinata di fine settembre, soleggiata, con qualche leggera pennellata di bianco su quell’immensa tela azzurra e un’aria ancora fresca.
Salì sulla sua Porsche e guizzò via dal parcheggio. Di solito non prendeva mai la macchina, in città la odiava, traffico, parcheggi, ecc. Moto o scooter erano l’ideale. Ma quella mattina sarebbe dovuto andare da un suo cliente a Frosinone per vedere una macchina.
Alle 9:30 arrivò al suo salone di Viale Parioli. Erano sei vetrine di giocattoli per adulti. All’interno facevano bella mostra di sé Ferrari, Maserati, Lamborghini, Porsche, Aston Martin, Jaguar, Mercedes e addirittura una Zonda. Per non parlare delle moto. Nella parte sottostante al salone, raggiungibile con un passo carrabile, c’era la grande officina, tutta bianca, pareti, pavimenti e camici dei meccanici. Sembrava una sala operatoria. C’era un operaio che aveva il solo incarico di tenere sempre tutto ordinato e pulito. Non lo vedevi mai fermo. Musica classica di sottofondo che si fondeva con la musica dei motori. Gli 8 e i 12 cilindri non fanno rumore, cantano!
Massimo era ingegnere meccanico per passione. Le auto lo avevano sempre affascinato, fin da bambino. Aveva lavorato per diverse case automobilistiche e appena venticinquenne era sbarcato anche in Ferrari. Il sogno di ogni ingegnere! L’esperienza era durata poco. Era ancora vivo il grande vecchio, che con l’età non era di certo migliorato. Per il suo carattere, l’ambiente era troppo stressante e non si poteva muovere un bullone che il Drake non volesse. Troppa referenzialità e troppa paura di toccare la suscettibilità sua e di sua moglie. In quegli anni, le defezioni di grandi nomi lo confermavano. Massimo, il giorno che aveva dato le dimissioni, salutando i colleghi con un ampio gesto della mano, aveva detto: “Capisco e invidio Ferruccio Lamborghini, se ne avessi i mezzi farei altrettanto. Vi saluto schiavi!”
Quando nacque sua figlia Federica, per stare a Roma e avere più tempo per seguirla, aprì il salone di auto e moto sportive. In fondo era il suo mondo e, guadagnandoci, aveva sempre a disposizione un infinito parco macchine per divertirsi e per dare sfogo alla sua passione.
La sua segretaria e i suoi quattro venditori erano vestiti come i commessi di Bulgari, impeccabili, dalla camicia bianca alla cravatta, alle scarpe di qualità, lucide come le carrozzerie delle auto che vendevano.
Alessandra, appena lo vide, gli si fece incontro, dicendo: “Buongiorno Ingegnere, il cliente di Frosinone ha spostato l’appuntamento dalle 12:00 alle 13:00, dicendo che per farsi perdonare la inviterà a pranzo.” Rimase contrariato da quella notizia e, con aria seccata, disse: “Del pranzo mi interessa poco e per quell’ora di ritardo dovrò far slittare altri appuntamenti. Già non mi va di andare a Frosinone. In Italia, è veramente difficile trovare una città brutta, ecco, Frosinone è l’eccezione che conferma la regola, inoltre questo tizio mi puzza un po’, vabbè…non è giornata.” Diede disposizioni varie ad Alessandra, salutò i ragazzi schierati come soldati e scese in officina.
Antonio, il capo officina, lo salutò da lontano e gli andò incontro. Era uno dei pochi che poteva permettersi di dargli del tu, si conoscevano da molti anni, dai tempi dell’attività agonistica di Massimo. Disse: “Ciao! Ti vedo nero. Che è successo?” Massimo, quasi volesse evitare di rispondere, disse: “Niente di particolare e tutto in generale. Oggi abbiamo consegne?” Antonio, con tono professionale, disse: “Oggi, abbiamo in consegna la Ferrari GTB e, sperando di farcela, per fine settimana la Porsche Carrera. Comunque, ho problemi con la Miura, il cambio fa uno strano rumore e oltre i 4.000 giri salta la terza. Dovremo tirarlo giù e aprirlo.” Altra buona notizia della giornata.
Massimo, dandogli affettuosamente una pacca sulla spalla, ironicamente, disse: “Risolto! Dì al proprietario di non superare i 3.500 giri, così consuma meno e evita che gli ritirino la patente per eccesso di velocità.” “Sì, è proprio il cliente giusto! C’ha settant’anni, ma sgomma anche quando parcheggia. Ahhh, ahhhh, ahhhh!” Rispose, Antonio, ridendo.
Gironzolò un po’ nell’officina, poi si fermò davanti alla sua Norton Commando, in fase di restauro. L’aveva comprata quando aveva vent’anni, dopo averla desiderata da quando ne aveva sei. Rivolgendosi a Vicenzo, il meccanico che se ne occupava, disse: “Mi raccomando, trattamela bene, è la mia bambina capricciosa.” Vincenzo, con un sorriso rispettoso, disse: “Stia tranquillo ingegnere, sarà più bella ed efficiente di quando è uscita dalla fabbrica.”
Massimo arrivò in piazza Benedetto Cairoli, parcheggiò, si guardò intorno per vedere se c’era il venditore dell’auto, si sedette sul bordo della fontana e si accese una sigaretta. Il rumore dell’acqua lo rilassava, inoltre gli procurava un po’ di frescura dall’insopportabile afa, caratteristica di quella città.
Dopo qualche minuto arrivò una Mercedes nera, dalla quale prima scese una specie di puffo, più largo che alto, poi il suo robusto autista. Il puffo si guardava intorno, Massimo capì che lui era il suo appuntamento e gli andò incontro. Anche il puffo capì e mentre accelerava il passo verso di lui, la stoffa dei pantaloni si attorcigliò intorno alle cosce che sfregavano, accorciandoglieli e scoprendo un paio di orrendi e corti calzini bianchi.
Con un ampio sorriso e porgendo la tozza mano, disse: “Immagino che lei sia l’Ingegner De Labi?!?” Lui, annuendo e stringendo quella mano sudata e quasi senza dita, disse: “Sì, certo! E lei è l’avvocato Salvatori. Piacere.” Il “picciotto”, alle spalle dell’avvocato, si limitò a fare un cenno col capo.
L’avvocato, nonostante l’espressione cordiale del viso, aveva un che di sinistro, di subdolo, di inquietante. Sicuramente non era il bonaccione che voleva apparire. Gesticolando con ampi gesti delle impacciate braccia, mettendo in crisi i, già provati, bottoni della sua camicia bianca, disse: “Vista l’ora, penso che sia meglio andare a mangiare qualcosa, poi rilassati e con la pancia piena, andiamo a vedere quel capolavoro su ruote. Che ne dice Ingegnè?” Massimo, rispose: “Come preferisce, l’importante è che sia a Roma per le cinque.”
Forse, Massimo era prevenuto, ma quel personaggio non lo convinceva. Avvocato?!? Di cosa? E quello strano autista con l’aria da picciotto!?! Difficilmente si sbagliava. La sua mente matematica, analitica, e le sue esperienze di vita riuscivano quasi sempre ad elaborare il profilo perfetto dei suoi interlocutori. Era un vantaggio, ma anche un limite, perché spesso applicava gli stessi sistemi di calcolo anche alle donne che conosceva. Ma era una cosa che gli veniva inconsciamente e, invece, tante volte avrebbe voluto lasciarsi andare. Rischiare di sbagliare, di farsi male e poi leccarsi le ferite. Quando correva era così, pochi calcoli e tanto istinto, quasi fosse immortale. Per fare un paragone, era più Villeneuve, che non Lauda.
L’avvocato fu accolto al ristorante con grande rispetto reverenziale, troppo per un semplice buon cliente. Durante tutto il pranzo non parlò mai della macchina, ma, con la bocca perennemente piena, non smise mai di parlare di sé stesso. Al contrario del “picciotto”, che non spiccicò parola. Solo quegli occhi a fessura tradivano la bonarietà di quel grasso faccione. Erano furbi, freddi e duri, così come i movimenti del suo corpo che, seppur impacciati, denunciavano arroganza e potere. Da tutto questo e dall’omaggiato conto del ristorante, Massimo trasse la conclusione che fosse un boss, un camorrista.
La villa dell’avvocato, poco fuori Frosinone, confermò le conclusioni di Massimo: sembrava una fortezza!
La saracinesca elettrica del box, salendo lentamente ed emettendo un leggero cigolio, ne svelò il prezioso contenuto. La luce del sole, come il faro di un palcoscenico, illuminò l’azzurro frontale di una Bugatti.
Era una EB110 del ’92, uno dei primi esemplari costruiti nella fabbrica del visionario Romano Artioli. Vettura controversa e piena di difetti di nascita, ma pur sempre un’icona da un milione di Euro.
Il “picciotto” aprì la portiera, che si spiegò verso l’alto come un’ala, entrò e avviò il motore. Prima un leggero sibilo, poi i 12 cilindri urlarono all’unisono, riempiendo quel bucolico silenzio. L’auto avanzò a passo d’uomo, fino a scoprirsi totalmente ai raggi del sole. L’Avvocato cominciò a tesserne le lodi, muovendosi avanti e indietro, indicando col tozzo dito particolari e caratteristiche. Massimo, con aria distaccata, disse: “Molto bella! L’ho quasi vista nascere. Con Romano eravamo buoni amici. Quando era ancora in fase di prototipo mi invitò a provarla per conoscere le mie impressioni. Gran motore, ma quella che provai all’epoca era una vera bara.”
L’avvocato che, vista la stazza, non c’era mai salito sopra, quasi con stizza, disse: “Ingegnere, ma che me la vuole deprezzare?!?” Lui, sereno e distaccato, rispose: “No, no, assolutamente! Il mio era solo un giudizio tecnico. Quando fu messa in produzione era molto migliorata, pur continuando ad avere molti difetti di gioventù. Comunque, come ben sa, non è per me, io vendo semplicemente supercar! Posso vedere lo storico della vettura e i documenti?” L’avvocato entrò in casa e ne uscì con un faldone color azzurro come la Bugatti.
Si accomodarono nel salotto del patio, su ampie poltrone di vimini con cuscini marroni, per consultare le carte. L’avvocato, con aria cortese, disse: “Prende un caffè, un amaro,… qualcosa?” Massimo, ringraziando, chiese un caffè. L’avvocato fece un cenno all’onnipresente “picciotto” e dopo poco arrivò la cameriera, filippina, con un grande vassoio colmo di ogni cosa.
“Le ho fatto fotocopia di ogni documento, così poi potrà verificarli con tutta calma.”, disse l’avvocato. Massimo, alzando gli occhi dal carteggio, disse: “Bene, la ringrazio, una verifica approfondita è d’obbligo. Non per sfiducia, ma capisce bene… per l’importanza della macchina e della cifra.” Poi, aggiunse: “Le dispiace se faccio una breve prova su strada?” L’avvocato, alzandosi dalla poltrona come una palla che rotola dalle scale, rispose: “Ci mancherebbe! E’ mio dovere e suo diritto.” Ballonzolando, sempre seguito dal suo fedele scudiero, lo accompagnò alla macchina e facendo un cenno col braccio, disse: “Prego, si accomodi!”
Nonostante fosse abituato da anni a guidare quelle auto, per Massimo quello fu il momento migliore della giornata. Non si sentiva mai a proprio agio come quando era alla guida di una macchina.
Con movimento sicuro unì il braccio alla leva del cambio, la gamba sinistra affondò sotto il cruscotto, la destra pigiò decisa l’acceleratore e il motore, alto di giri, soffiò fuori l’aria in pressione. Sembrò che quel rumore venisse direttamente dal suo cuore, prendendo fiato tra una spinta e l’altra del V12 quadriturbo.
610 CV, scaricati su quattro ruote motrici, sono come una rasoiata sull’asfalto. L’accelerazione, di poco più di 3 secondi da 0 a 100 km/h, per un attimo non ti fa arrivare abbaul sangue al cervello e hai come un leggero senso di svenimento, subito compensato da una scarica di adrenalina che sale veloce come il numero dei giri.
Massimo, con i limiti pratici che quella strada consentiva, snocciolò le marce come i grani di un rosario. In una manciata di secondi era già oltre i duecento chilometri orari, poco più avanti una curva a destra, diede un colpo di freni e, con precisi movimenti del braccio, scalò tre marce in rapida successione: la Bugatti percorse la curva come un treno sulle rotaie, lasciandosela alle spalle con rabbiosa prepotenza. Lui e la Bugatti avrebbero voluto essere in pista per godersi quell’amplesso fino in fondo. Quella prova su strada era stata come un coitus interruptus. Pensò che l’auto non era male e il prezzo che ne chiedeva l’avvocato era particolarmente vantaggioso: 800.000 euro. Anche questo puzzava, troppo conveniente. Fatte queste considerazioni, tornò alla villa. “Bene avvocato, per il momento non ho altro da chiederle. L’auto non è male a parte qualche problema di messa a punto, di un turbo che non va d’accordo con gli altri e i freni da rivedere.” L’avvocato, celando una certa stizza per i difetti appena elencati, con falsa cordialità, disse: “Non mi parli di problemi tecnici, a malapena so cos’è un motore. Se lo dice lei che è un esperto mi fido. Allora? Concludiamo l’affare?” Massimo, con cordiale distacco, disse: “Non la prenda per sfiducia, ma l’auto ha avuto vari passaggi di proprietà e devo far controllare i documenti, inoltre devo relazionare il mio cliente ed avere la piena conferma della sua disponibilità all’acquisto. Nell’arco di 48 ore le farò sapere qualcosa.” Chissà, forse l’avvocato aveva visto troppe puntate di “Affari a quattroruote”, pensava che bastasse una stretta di mano e una valigetta con 800.000 euro in contanti. Con l’espressione di quegli occhi freddi, che erano diventati ancora più piccoli, a denti stretti, disse: “Si, ma non mi faccia perdere tempo. Odio perdere tempo.” Massimo, per nulla intimorito da quel tono minaccioso, disse: “Neanche a me piace perdere tempo. 48 ore! E’ stato un piacere conoscerla.”
Diede i documenti ad Alessandra, pregandola di farli esaminare con la massima urgenza. Parlò con Antonio perché gli preparasse un preventivo per i lavori da fare sulla Bugatti. Salutò e andò a casa.
La giornata era ancora lunga. Aveva la cena di compleanno, con la sua fidanzata e con alcuni amici, ma non ne aveva molta voglia. L’unica persona con la quale avrebbe voluto festeggiare era sua figlia, ma studiava in un College vicino Firenze e tornava a casa soltanto per il fine settimana. Avrebbe di nuovo festeggiato, soltanto con lei, il prossimo sabato sera.
Prima di uscire, diede un’occhiata all’Iphone, c’erano alcuni messaggi di auguri e un messaggio di Federica: – Ciao papino, scusa per stamattina, lo sai che ho un brutto carattere, ma tu a volte mi stressi. A volte ho il dubbio di star studiando per qualcosa che non sono sicura che mi piacerà fare. Mi spaventa il futuro perché sento di non avere una particolare vocazione per qualcosa. Mi viene l’ansia e i sensi di colpa nei tuoi confronti. Tanti, tanti auguri. TVB. – Massimo sorrise e fu invaso da un grande tenerezza. Rispose: -Amore, il futuro si chiama futuro perché non lo conosciamo. Alla tua età, da un anno all’altro cambiano tante cose… Pensa al presente, non farti venire ansie e cerca di fare al meglio quello che devi fare. Lascia perdere i sensi di colpa per me, io voglio soltanto la tua felicità. Impegnati comunque, ti servirà per qualsiasi cosa tu voglia fare in futuro. Ora smettila di fare l’ansiosa, proietta i tuoi pensieri non oltre le 24 ore e non piangerti addosso. Sabato festeggiamo insieme, soltanto io e te. TVB.-
Si era fatto tardi, sgommò con la Porsche, come se fosse alla partenza di Le Mans.
Francesca, cosa rara per una donna, era già sotto al portone ad aspettarlo. Massimo scese, trafelato, dalla macchina, si scusò, la baciò e partirono alla volta del ristorante.
Francesca, sua fidanzata da un paio di anni, trentottenne, non alta, ma fisicamente perfetta e con un bel viso sbarazzino, divorziata anche lei, era giornalista e lavorava in un quotidiano romano. Come diceva ironicamente Massimo, era la donna delle 3P: prevaricatrice, possessiva, permalosa.
Francesca, accarezzandogli la mano, poggiata sul cambio, scherzosamente, disse: “Cinquanta anni! Mi devo preoccupare?” “Di cosa?” Rispose, distrattamente, lui. Lei, incalzando, disse: “Beh, della crisi del cinquantenne! Si dice che gli uomini a cinquant’anni perdono la testa, lasciano la moglie e scappano con qualche ragazzina.” Lui, carinamente, conoscendola, per non accendere qualche pericolosa miccia, disse: “Amore, ma io già sto con una ragazzina! Un’affascinante ragazzina di trentotto anni.” Francesca, presa in contropiede, disse: “Sei sempre il solito paraculo, bastardo, ma ti amo tanto.”
I suoi amici erano tutti lì, davanti al ristorante, ad aspettarlo. Appena lo videro intonarono un disordinato e stonato: “perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo…” Massimo, con un’inequivocabile espressione del viso e un cenno della mano, disse: “Stop! Non ci facciamo sempre riconoscere.” C’era Walter, dentista, amico fin dai tempi del liceo, sempre con la battuta pronta, ma la sua allegria celava un grande disagio affettivo. Praticamente abbandonato alla nascita da una madre un po’ puttana e sbattuto in collegio da un padre egoista e menefreghista, ancora da adulto si portava dietro quelle ferite mai rimarginate. Aveva sempre cercato di compensare l’affettività perduta attraverso l’amore di una donna, ma a quelle sue vecchie ferite se ne erano aggiunte altre: un matrimonio fallito, la moglie aveva una tresca con un collega di lavoro, varie storie finite male e ora, questa ultima compagna, Cecilia, era un’opportunista che, capite le sue fragilità, lo sfruttava.
C’era Massimiliano, costruttore, anche lui amico di vecchia data. Single da sempre. Non alto, ma molto affascinante, passato da una vita di sregolatezze ad una vita quasi monacale e salutista, dettata anche dalla sua accentuata ipocondria. Con lui, Marisa, una bella donna con la quale conviveva da due anni.
C’era l’immancabile Simona, sua ex, trasformata nella sua amica più cara e fedele ormai da 10 anni. Dopo sua figlia Federica, forse, Simona era la persona che stimava e amava di più nella sua vita. Empatica, solare, intelligente, intraprendente, generosa, sempre pronta ad aiutare gli altri e mai sé stessa. Era un’amica insostituibile e centrale per l’equilibrio di Massimo.
Per concludere c’era Andrea, antiquario, vedovo, vecchio amico di scorribande, ahimè, sempre in lotta con l’alcolismo. Tanto forte e sicuro in apparenza, quando debole e fragile nella realtà.
Pietro, amico e proprietario del ristorante, li fece accomodare in un bel tavolo del giardino interno. Tornò quasi subito con in mano una bottiglia di champagne, accompagnato da due camerieri con vassoi colmi di stuzzicanti antipasti, dicendo: “Questa la offro io! Tanti carissimi auguri caro Ingegnere e buon appetito a tutti!”
Erano i suoi migliori amici, ma era come assente, immerso nei suoi pensieri, sentiva solo un brusio di voci. All’improvviso, fu come risvegliato da una stretta di mano di Francesca e dalla sgradevole voce di Cecilia che, ossessivamente, ripeteva: “Siete una bella coppia. Che aspettate a sposarvi?!?” Massimo, guardò Francesca, poi si guardò intorno e incrociò lo sguardo con quello di Cecilia. Non sentì subito la sua voce, ma vide quella bocca che si muoveva, senza emettere alcun suono. Sembrava un pesce in un acquario. Poi, arrivò il suono delle sue parole: “…è,è,è, voi uomini, sempre a fare i ragazzini con noi che vi corriamo dietro… Cosa aspetti a sposarla?…” Massimo, come risvegliato all’improvviso, prima di rispondere guardò il suo amico Walter, quasi per scusarsi di quello che avrebbe detto, poi, disse: “Cara Cecilia, ho già dato. Poi, comunque, scusa l’espressione schietta, sono cazzi nostri! Se stai dicendo questo per lanciare indirettamente un messaggio al tuo fidanzato Walter, ti rispondo io per lui, ha già dato anche lui!” Walter lo guardò con uno sguardo complice, di riconoscenza. Cecilia, invece, con gli occhi rossi di stizza e di qualche bicchiere di troppo, disse: “Sei il solito villano e arrogante. Povera Francesca!” Tempestiva, intervenne a rasserenare gli animi la dolce Marisa, dicendo: “Vedete com’è bizzarra la vita: Massimiliano vorrebbe sposarmi e invece sono io che non voglio. Stiamo così bene insieme, cosa ci cambierebbe un matrimonio?!? Basta con queste discussioni stupide. In alto i calici per il nostro festeggiato!” L’ennesimo brindisi diradò le nubi di quella piccola tempesta e la comitiva riprese le sue banali conversazioni.
Prima che arrivasse la fatidica torta con le cinquanta candeline, Walter, alzandosi, disse: “Massimo, andiamo a fumarci una sigaretta!” Massimo, si alzò e lo seguì fino ad un salottino, in un angolo del giardino, dedicato ai fumatori. Si sedettero su comode poltrone di vimini, si accesero una sigaretta e Walter disse: “Scusa per Cecilia, quella è già invadente di suo, poi quando beve non si regola.” Massimo, guardando con affetto l’amico, disse: “Scusa tu, ma ho avuto una giornataccia e poi queste intrusioni nella mia vita privata non le sopporto. Già Francesca mi rompe i coglioni di suo con la storia di andare a vivere insieme, ci manca solo Cecilia a metterci il carico da undici.” Walter, non perdendo mai la sua vena ironica, disse: “Sai come dico io?!? Il mondo è bello perché è “avariato”. Ah,ah,ah,ahhh. E’ tutta una vita che sono una calamita per le stronze. Lo sai, in passato ho anche cercato di interrompere questa catena: ho tentato il suicidio due volte, ma ho fallito. Ho fallito anche in questo! Ma stavolta ho trovato il killer giusto! Stavolta ce la faccio!” Massimo, guardando l’amico con curiosità e stupore, disse: “Mo che è ‘sta stronzata del killer?” Walter, mantenendo il suo sorriso ironico e scanzonato, disse: “Ho un tumore al fegato. Mi hanno dato tre mesi di vita.” Massimo non commentò e, abbracciandolo teneramente, disse: “Se non ti trovi bene, è meglio che te ne vada.” Esitò e aggiunse: “Comunque, non pensare di cavartela così, ti porterò con me per il resto della mia vita.”
Era arrivata la torta, con quell’incendio di 50 candeline, i vicini di tavolo accennarono dei sorrisi augurali e pigramente batterono le mani. Massimo inspirò profondamente e soffiò come un tornado su quello che era rimasto dei suoi cinquant’anni. Walter, in piedi, aprì la bottiglia di champagne e, raggiungendo rapidamente i calici protesi disse, disse: “Brindo all’amico, al fratello, al padre, che sei stato per me in tutti questi anni.” Il tintinnio dei calici riempì l’aria, interrompendo per un attimo quello strano, religioso, silenzio che si era creato. Poi, tutto riprese vita, le risa e il brusio delle voci ripresero il sopravvento, tutto riprese come prima, come nulla fosse mai avvenuto. Il presente era già passato e il futuro era appena iniziato.
Massimo guardò l’orologio e, subito, Francesca, disse: “Hai un appuntamento?” Lui, sorridendo, rispose: “Ammiravo il tuo regalo e guardavo quanto tempo mancasse prima di arrivare a casa e fare l’amore con te.” Francesca, conoscendo la passione di Massimo per gli orologi, gli aveva appena regalato un JWC Porsche Design in Titanio.
Erano quasi arrivati alla macchina, quando Massimo notò uno strano veicolo parcheggiato in seconda fila, davanti a una gelateria. Di fronte a certe cose, la sua passione per i motori lo faceva comportare come un bambino. Affascinato, si fermò ad osservarlo. Era uno strano veicolo, con la parte anteriore carenata e due ruote, un manubrio da moto, una enorme e confortevole sella, una grossa gomma sul posteriore. Osservò ogni particolare e lesse il nome sulla carenatura: CAM AM SPYDER GRAN SPORT ROADSTER. Gli evocò subito un senso di libertà, una voglia irrefrenabile di saltare su quella sella e di partire per un lungo viaggio senza meta.
Francesca, tirandolo per la giacca, disse: “Eccolo, non crescerai mai! Sempre a giocare coi tuoi giocattoli.” Lui, così preso dai suoi sogni di avventura, distrattamente, disse: “Cosa hai detto amore?!?” Lei, stizzita, rispose: “Sei talmente preso, che non stai neanche a sentirmi. Non ti preoccupare non ti ho detto niente, intanto ripeterlo sarebbe inutile.” Massimo, stupito da quel tono, disse: “Ma che hai? Perché sei arrabbiata? Non sarai mica gelosa di questo coso a tre ruote?!?” Lei, per nulla rasserenata, rispose: “Sono gelosa di tutto, dei tuoi giocattoli, dei tuoi amici, del tuo lavoro, di tua figlia, perché io vengo sempre dopo ogni cosa. Sono sempre l’ultima!” Lui, seccato, ma cercando di mantenere un tono conciliante, disse: “Amore, ma che dici? Che stai farneticando? Hai bevuto troppo?!?” Lei, ormai senza controllo, rispose: “Ora mi dai anche dell’ubriaca! Offendi anche me, dopo aver offeso Cecilia per essersi permessa di parlarti di matrimonio. Ma certo, tu sei superiore a tutti, nessuno ti può dire niente, devono essere tutti ai tuoi ordini. Non possiamo vivere insieme perché non vuoi scalfire la suscettibilità di tua figlia, non possiamo sposarci, perché, come dici tu: ho già dato. Ma cresci! Hai 50 anni!” Massimo che, fino ad allora, era stato accomodante e gentile, non potendo non reagire all’attacco scomposto di Francesca, disse: “Ecco la donna delle 3P in tutto il suo splendore! Lo so che ho cinquanta anni, li ho appena festeggiati. Che devo fare, mettermi in pantofole davanti alla TV? Giocare a bocce al circolo degli anziani? Andare la domenica a messa, mano nella mano? Comprarmi una Volvo Station Wagon e riempirla di mocciosi e di cani? Cosa dovrei fare per farti felice e per rasserenare le tue ire improvvise?” Lei rispose: “Nulla! Non devi fare nulla.” Si girò di scatto per allontanarsi e quasi fu investita da una macchina, gesticolò con il braccio alzato, urlò: “Taxi, taxi, taxi.” Un ignaro autista si fermò con uno stridio di freni e accolse, nel suo taxi, la parte peggiore di quella bella e intelligente ragazza.
Massimo non si stupì più di tanto, era abituato ai repentini cambiamenti di umore e alle scenate di Francesca. Approfittò dell’occasione per guardare più attentamente quello strano veicolo. Mentre veleggiava coi suoi pensieri, una voce sicura e piacevole disse: “Le piace?” Massimo, preso alla sprovvista, alzò gli occhi per vedere chi fosse l’autore di quella domanda. Era un bel ragazzo di circa trent’anni, alto, atletico e, come tutti i giovani rampanti di quell’età, accessoriato di barba e tatuaggi. Massimo, accennando un sorriso cordiale, disse: “Si! Molto interessante. Non l’avevo mai vista.” Il giovane, visibilmente orgoglioso del suo mezzo, disse: “In effetti è una novità per l’Europa. E’ un mezzo della canadese BRP, ora importato anche in Italia. Se le interessa, li vendo io.” Massimo, prima di parlare, guardò l’orologio. La mezzanotte era passata da un quarto d’ora. Scaramanticamente rassicurato dal fatto che quella brutta giornata fosse giunta al termine e che fosse iniziato un nuovo giorno, disse: “Certo che mi interessa! Ma vista l’ora non la voglio trattenere.” Il giovanotto, già nei panni di venditore, disse: “Ma ci mancherebbe. E’ un piacere! Il motore è un Rotax 1330 cc., 3 cilindri da 115 cavalli, con cambio sequenziale a sei marce…” Massimo, interrompendolo, disse: “Sìì, si, credo di essermi fatto un’idea. Dov’è la sua concessionaria? Voglio passare a trovarla e provare questo coso.” Il giovanotto estrasse il biglietto da visita dal giubbotto e lo porse a Massimo. “Siamo in Via Nomentana. Sul biglietto c’è tutto. L’Aspetto!” Massimo ringraziò e promise che sarebbe andato a trovarlo presto. Vittorio, il giovanotto, indossò il casco, inforcò la CAM AM e pigiò il bottone rosso dello starter. Dallo scarico uscì un rumore graffiante, classico dei tre cilindri. Vittorio, con una manovra, volutamente scenografica, fece sgommare il grosso pneumatico posteriore e in un attimo si dileguò.
Massimo, pensò: -Certo che ti verrò a trovare. Certo!
La riflessione, del giorno precedente, davanti allo specchio, il susseguirsi di eventi negativi durante tutta la giornata, il suo cinquantesimo compleanno, la scoperta di quello strano veicolo a tre ruote… Era come se, all’improvviso, si componessero le tessere di uno strano puzzle, come se apparenti coincidenze fossero solo l’inizio di un inevitabile cambiamento.
Sprofondato sul divano, mentre ascoltava Heroes di David Bowie, nella sua mente cominciò a prendere forma uno strano progetto. Avrebbe staccato la spina, sarebbe partito per un mese, forse due, senza nessuna meta. Non intendeva questo viaggio come una fuga, ma esattamente il contrario. La voglia, la necessità di ritrovarsi, di ritrovare una strada da percorrere per il futuro. Si era reso conto improvvisamente che quella che stava percorrendo da un po’ di anni era una strada a senso unico, era un vicolo cieco, era un cul de sac. Sì! Aveva deciso! Al massimo entro una settimana sarebbe partito.
“Vittorio, buongiorno! Sono Massimo, quel signore che ieri sera era affascinato dalla sua Cam Am. La trovo se passo tra un’oretta?” Vittorio, con tono cordiale e professionale, disse: “Buongiorno a lei. Sì, certo. L’aspetto.”
Vittorio, guardando la Porsche di Massimo, appena parcheggiata, disse: “Certo che, anche lei, in quanto a giocattolini non scherza.” Massimo, facendo un sorriso di circoul, disse: “Auto e moto sono la mia passione da sempre, apposta sono qui, mi mancava un triciclo. Ah,ah,ah,ah,ahhhhh.”
Dopo una interessante e soddisfacente prova su strada, acquistò il top di gamma, full optional, rosso Ferrari. L’avrebbe preferito nero, ma quello rosso, e un altro, di un improponibile color giallo, erano gli unici in pronta consegna.
Vittorio, salutandolo, disse: “Come d’accordo, al massimo entro tre giorni glielo consegno. Poi, mi farà piacere visitare il suo negozio di “giocattoli”, anche se credo che non mi potrò permettere di fare acquisti. I suoi non sono “tricicli”!” Massimo, salendo sulla Porsche, sornionamente, disse: “Non si sa mai…, ma faccia presto, sono in partenza per un lungo viaggio. Ci vediamo giovedì!”
Mentre era in macchina, gli venne in mente Forrest Gump, dell’omonimo film e una delle sue fantastiche frasi: “Quel giorno, non so proprio perché, decisi di andare a correre un po'”. Pensò che la sua CAM AM non era proprio un paio di scarpe da running, ma, in fondo, l’intenzione era la stessa. Sorrise.
“Alessandra, buongiorno, mi organizzi una riunione per le 15:00, con Antonio, Giorgio e il Rag. Salvati. Ha notizie per i documenti della Bugatti?” Alessandra, rispose: “Sì, glieli ho lasciati sulla scrivania, ma per quello che ho visto, come diceva lei, su quella macchina c’è qualcosa di poco chiaro. Bene, organizzo la riunione.” Massimo, andò nel suo ufficio e controllò i documenti. Come primo proprietario figurava un Emiro arabo, poi era passata di mano ad un banchiere svizzero che, a sua volta, dopo qualche mese, l’aveva ceduta ad un industriale padano e, infine, era stata acquisita da una società Lussemburghese. Lì se ne perdevano le tracce, fino a riapparire, non si sa come, nelle mani del sedicente avvocato di Frosinone che, comunque, non era l’effettivo proprietario. C’era troppa puzza di camorra, confermata dal prezzo di svendita di 800.000 euro e dalle modalità di pagamento richieste dall’avvocato: 50% con bonifico bancario, 50% contanti, in nero. Il suo cliente, collezionista serio e trasparente, non avrebbe mai accettato.
Chiamò subito l’avvocato, dicendogli che il suo cliente aveva soprasseduto all’acquisto e che per il momento non se ne sarebbe fatto niente. Salutò ossequiosamente e chiuse la telefonata. L’avvocato non la prese per niente bene.
Erano già tutti presenti nella sala riunioni, Massimo si sedette, bevve il caffè che Alessandra aveva appena preparato, si accese una sigaretta e, con tono tranquillo, ma deciso, disse: “Vi ho riunito per informarvi che non sarò presente in azienda per uno o due mesi. Alessandra, lei avrà tutte le deleghe bancarie e il potere di firma. Giorgio, lei, come direttore delle vendite, avrà la responsabilità di effettuare le vendite senza il mio benestare finale. Lei, ragionier Salvati, in collaborazione con Alessandra, effettuerà incassi e pagamenti. Tu, Antonio, potrai tranquillamente andare avanti senza di me.” Antonio, interrompendolo, disse: “Ingegnere, grazie per la fiducia, ma lo sai che non è così. Noi siamo come una coppia di carabinieri: uno legge e uno scrive. Ahh,ahh,ahhh.” Massimo, sorridendo, prosegui: “Vai, vai, che ce la fai pure da solo. Quindi, ritornando all’argomento della riunione, confido pienamente in voi. Sono certo che non mi deluderete. Io sarò presente ancora qualche giorno per le ultime incombenze. Andate pure. Lei, Alessandra, resti.” Lasciarono tutti la sala riunione con un’aria interrogativa, anche Alessandra aveva la stessa espressione.
Massimo, disse: “Capisco la sua perplessità, ma non è successo niente di grave. Ho semplicemente deciso di partire per un lungo viaggio. Ho bisogno di staccare, di rimettere ordine nella mia vita. So che di lei mi posso fidare ciecamente, così come degli altri collaboratori. Quindi parto sereno. Io mi farò sentire non più di una volta a settimana e lei mi contatti solo se è assolutamente indispensabile. Potete tranquillamente cavarvela da soli. Ha qualche domanda?” Alessandra, pur essendo una donna energica e intraprendente, presa così alla sprovvista, disse: “Non so, forse avrei mille di domande da farle ma, come dice lei, dobbiamo cavarcela da soli. Ci conti, ce la caveremo da soli! Grazie per la fiducia.” “Grazie a lei!” rispose Massimo.
Ora, la parte del piano più difficile da affrontare era sua figlia, non solo per come avrebbe reagito lei, ma per quanto era difficile per lui separarsene. Ma anche questa separazione, probabilmente, lo avrebbe aiutato a ritrovarsi. Da quando era nata Federica ogni pensiero, azione, decisione, era condizionata al benessere e alla felicità di quella bambina, spesso anche a scapito della sua. Fare il padre era l’esperienza e il “mestiere” più difficile che avesse mai affrontato nella sua vita e, forse, era quello che gli era riuscito meglio.
Massimo mandò un messaggio a sua figlia: -“Venerdì vengo a prenderti io a scuola, così durante il viaggio di ritorno parliamo un po’”– Dopo poco, Federica, rispose: -“Wow, precio!!! (precio, nel gergo dei giovani, significa: preciso, perfetto) Così non devo farmi il viaggio in treno. Ma è successo qualcosa?” Lui rispose: -“No amore, niente di particolare. Ci vediamo venerdì.” Appena scritto il messaggio, fu assalito da un forte senso di colpa, di disagio, come se la stesse abbandonando, lui che non se n’era mai separato per più di 24 ore.
Finalmente era giovedì, il giorno della consegna della CAM AM. Vittorio aveva chiamato per dire che il veicolo era pronto. Massimo, come un ragazzino, si fece chiamare un taxi, mollò tutto e si precipitò a ritirare il suo giocattolo, la sua speranza di libertà.
Appena lo vide entrare nell’autosalone, Vittorio gli andò incontro con aria cordiale e amichevole: “Buongiorno ingegnere, il suo giocattolo è pronto per affrontare il battesimo dell’asfalto. Sapendo del lungo viaggio che intraprenderà, abbiamo fatto un super tagliando e un super controllo. Le abbiamo montato tutti i borsoni e tutti gli accessori richiesti. E’ un vero gioiello e sono felice che vada nelle mani di un vero esperto di motori.” Massimo, ricambiando la cordialità, disse: “Grazie Vittorio, è sempre molto gentile. Spero che il suo triciclo sia in grado di portarmi in giro per il mondo senza noie. A proposito, mi ha preparato una lista di centri di assistenza sparsi per tutta Europa? Sa, non si sa mai…” Vittorio, prontamente, disse: “Troverà tutto in una cartellina, inoltre l’ho omaggiata di un servizio assistenza e carro attrezzi che copre tutta l’Europa e i paesi extracomunitari. Stia tranquillo, ho pensato a tutto.”
Massimo, una volta in sella a quello strano e affascinante oggetto, si accomiatò da Vittorio che, con un’espressione veramente sincera, disse: “Sa, ingegnere, un po’ la invidio. Vorrei avere anch'io il coraggio di mollare tutto e di buttarmi in questa fantastica avventura.” Massimo, guardandolo affettuosamente, come un padre, disse: “Lei è giovane. Lo farà! Quando si perderà, cercherà di ritrovarsi. Lo farà!” Gli sorrise benevolmente, pigiò il bottone rosso dello starter: il motore, col suo cupo suono, spezzò l’imbarazzo di quell’attimo e Massimo scomparve risucchiato dal traffico.
“Ciao Rosy, ti volevo anticipare che partirò per uno, due mesi, in giro per l’Europa, per lavoro e perché ho bisogno di staccare. Venerdì vado a prendere Federica a Firenze e le do la notizia, non so come la prenderà, ma ormai ho deciso. Poi ne parliamo a voce quando ti porto Federica.” Rosy, col tono sorpreso e falsamente cortese, disse: “E quando avresti deciso di partire?” Massimo, calmo, rispose: “Sabato o Domenica.” Rosy, ora visibilmente seccata, disse: “Ah, così, quasi senza preavviso!?! Da un giorno all’altro!?! Certo, tu sei il falco, quello che volteggia libero nell’aria e guarda tutti dall’alto.” Lui, mantenendo una calma serafica, disse: “Scusa, Rosy, non capisco il tuo tono e le tue allusioni, siamo divorziati da anni, non ho fatto mai mancare nulla a te e a nostra figlia, sono un uomo maturo e libero. Cosa devo fare?!? Devo chiederti il permesso?!?” Lei, sempre più irritata dal tono calmo e sarcastico di lui, disse: “Tu sei stato sempre un uomo libero e ti sei sempre fatto i cazzi tuoi. Tu sei un uomo superiore, non devi chiedere il permesso a nessuno. Ci mancherebbe!” Lui, sapendo che la cosa sarebbe potuta andare avanti per ore, interrompendola, disse: “Sì, sì, ok, è come dici tu, ci vediamo venerdì sera quando ti porto Federica. Ora ti lascio perché mi stanno chiamando dall’officina.” Riattaccò prime che lei avesse l’occasione di aggiungere altro o di salutarlo.
Rosy era una bella donna, intelligente e per bene, ma le loro incompatibilità, o forse quelle di Massimo, erano tali da non consentire che il rapporto potesse durare a lungo. Questo, lei, non glielo aveva mai perdonato e, probabilmente, non glielo avrebbe perdonato neanche dopo morto.
Arrivò al College leggermente in ritardo e lanciando uno sguardo per vedere dove fosse sua figlia, la vide poco distante, in mezzo ad un gruppetto di compagni, due ragazzi e tre ragazze. Lei era la leader, glielo dicevano ai colloqui anche le maestre delle elementari. Una bella ragazza, non alta, ma con un viso che sembrava una porcellana di Capodimonte e due occhi grigio-verdi da ipnotizzare un elefante. Intelligente, più matura della sua età e con un carattere ribelle, era lì a tenere banco, quasi come se fosse sempre incazzata col mondo intero.
Massimo diede un colpetto di clacson e fece un gesto di saluto col braccio fuori dalla macchina. Fu un’amica ad accorgersi della sua presenza: sorridendo, salutò anche lei con un cenno della mano e avvertì Federica. Si salutarono e si abbracciarono come se si vedessero rivedere tra mille anni.
Salendo in macchina, con la sua grazia mascolina, disse: “Ciao papo, come stai? Andiamo subito a mangiare, c’ho una fame che non ci vedo!”
Viste le insistenze di Federica, si fermarono poco più avanti, in una trattoria da camionisti (garanzia di cibo ottimo e abbondante). Incurante della dieta, che regolarmente iniziava e interrompeva ogni settimana, ordinò una Carbonara, una bistecca ai ferri e le immancabili patatine fritte. Massimo prese soltanto una tagliata di manzo e della rughetta di campo. Mentre mangiavano, Federica, sempre col suo tono di voce alto e agitato, iniziò la sua lunga lista di lamentele: l’istitutrice del convitto è una stronza; la professoressa di matematica ce l’ha con me, così come pure quella di inglese e quella di spagnolo; la mia compagna di ul mi ruba i vestiti; i ragazzi sono tutti infantili e bastardi, ecc., ecc. Il padre l’ascoltava pazientemente, intervenendo, quando necessario, a suo favore e, quando lo riteneva obiettivamente giusto, a suo sfavore, facendole notare con garbo che in quella determinata occasione la ragione non era dalla sua parte. Salvati cielo! “Ecco, ora ti ci metti anche tu! Sempre a darmi contro. Basta! Non ti racconto più niente.” Il padre, sempre con calma e pazienza, cercava di motivare il suo punto di vista: “Amore, non ti do contro, ma non puoi pensare di avere sempre ragione. Molte delle cose che ti accadono sei tu a procurarle, col tuo atteggiamento di sfida, con le tue espressioni del viso che dicono più di tante parole, con il tono che usi e con quella tua maledetta filosofia del “mi spezzo ma non mi piego”. Sapersi piegare, che non significa essere codardi e servili, è un atteggiamento maturo e intelligente. Piegarsi significa non prendere un muro in pieno, significa cercare di frenare e sterzare per rendere l’impatto meno disastroso. Là fuori, la vita è dura e se non saprai adattarti, ti spezzerà!” Lo sguardo della figlia gli fece capire che, ancora una volta, aveva sprecato inutilmente fiato e parole.
In fondo, quella parte del carattere gli piaceva, ma nello stesso tempo, da padre, aveva paura che si facesse male. Ma questi sono i figli. Cerchiamo di plasmarli a nostra immagine e somiglianza, con la presunzione che noi siamo perfetti, dimenticando che sono individui autonomi e che la loro unicità è la parte più affascinante della natura umana.
Imboccarono l’autostrada verso Roma, era una bella e soleggiata giornata di fine settembre, sembrava che l’estate proseguisse, ignorando il calendario. All’improvviso Federica si tolse le cuffie che, ahimè, non filtravano a sufficienza la noiosa, insulsa, deprimente, volgare musica rap nostrana che ascoltava, e con voce gentile, quella delle occasioni migliori e di quando doveva chiedere un favore, disse: “Papino mi fai guidare un po’?!?” “Come, guidare?!? Ma se neanche hai la patente.” Lei, angelicamente, disse: “Ma è una pura formalità burocratica, lo sai che la macchina la so portare.” Lui, già rassegnato, disse: “Sì, sì, lo so, ma questa pura formalità burocratica, come la chiami tu, mi può costare il sequestro dell’auto, il ritiro della patente, ecc., ecc.” Federica, in effetti, l’auto la sapeva portare e anche bene. Il padre, da buon ex pilota, all’età di 5 anni l’aveva sbattuta su un kart, dicendole: “Schiaccia quel pedale e vai!”. Era un talento naturale, aveva vinto vari trofei, poi era passata alla Formula Junior, vincendo il campionato italiano. Alcune esperienze nella classe Turismo e Gran Turismo, poi, come era nel suo carattere, mollò tutto con una banale giustificazione: “Comincio ad annoiarmi”. Il padre ci rimase un po’ male, ma non la contrastò, non l’avrebbe mai obbligata a fare una cosa che non amava e non sentiva al cento per cento. Era fatta così, era come se non volesse mai portare le cose fino in fondo o come se la stimolasse di più fare una cosa nuova, affrontare altre sfide.
Massimo accostò nella piazzola di emergenza, scese dall’auto, si guardò intorno guardingo, cedette la guida a Federica che, ripartendo, lasciò due baffi neri sull’asfalto. “Ehi, datti una calmata! Non sei in pista e se ci beccano passiamo la notte all’albergo Regina Coeli." Lei, con un sorriso sinistro, disse: “Tranquillo papà!” Lui, prontamente, disse: “Sì, sì, “tranquillo” è morto! Ahahahah ahahah.”
Massimo la osservava guidare e, compiaciuto, sorrideva sotto i baffi. Era bello vedere come quella ragazzina avesse il pieno controllo di quegli oltre 400 CV su quattro ruote. Era sicura, precisa, prudente, ma veloce, con quel viso sereno e quegli occhi verdi che, come laser, si muovevano veloci a scannerizzare ogni centimetro di quella lunga striscia di asfalto grigio. Dopo una cinquantina di chilometri, Massimo, disse: “Accosta alla prima banchina di emergenza, non approfittiamo troppo della fortuna. Sei brava, peccato che tu abbia mollato tutto.” Federica, alzando gli occhi al cielo, con una delle sue facce da schiaffi, disse: “Uffaaaaa, vabbè dai, non ci torniamo ancora sopra. Ora accosto.”
L’accompagnò dalla madre, si sarebbero rivisti il giorno dopo per festeggiare il suo compleanno e per salutarla prima della partenza.
Quella sera si sarebbe visto con Francesca e già presentiva una burrasca. Francesca ancora non sapeva nulla della partenza e sicuramente non l’avrebbe presa bene.
Avevano cenato all’aperto, da Gildo, un ristorantino in Trastevere. Gildo era morto da anni e a servirli era la figlia. Massimo, ogni volta che la vedeva, aveva un brivido. Era la copia perfetta del padre, anche nella gestualità e nel modo di esprimersi, confermando la sua teoria che l’immortalità sono i figli. Muori realmente solo quando il tuo sangue non scorre più nelle vene di nessuno.
Livia, col suo cordiale sorriso, portò il dolce, un limoncello per Francesca e l’ennesimo caffè per Massimo.
“Lunedì parto.” Questa breve frase ruppe il silenzio. Francesca, col bicchierino di limoncello in mano, alzando gli occhi verso di lui, disse: “Non mi avevi detto niente. Dove vai?” Lui, temendo la reazione di lei, serafico e col tono di chi vuole sminuire la gravità della notizia, rispose: “Non lo so esattamente, starò via per due o tre mesi.” Lei, poggiando con mano tremante il bicchiere di limoncello sul tavolo, socchiudendo gli occhi come la lama di un coltello, facendogli da eco, disse: “Due o tre mesi?!? Quando pensavi di dirmelo?!? Ti ha dato di volta il cervello?” Lui, prendendole la mano, con un sorriso rassicurante, disse: “Non prenderla così, è una decisione che mi è scattata in quest'ultima settimana. Ho perso il controllo di me, non so più chi sia, sono infelice, voglio provare a ritrovarmi. L’unico modo è tagliare con tutto e con tutti. Non è stata una decisione facile, ma devo farlo! Devo farlo per me, per mia figlia, per te, per il nostro futuro. Non so come spiegarmi. Spero tu possa capire.” Stranamente, il volto di Francesca si rasserenò e guardandolo con sguardo intenso e quasi commosso, con voce calma, disse: “Credo di capirti. Fai quello che ritieni sia meglio per te, un uomo infelice non mi serve a niente. Ti aspetterò come ho sempre fatto.” Massimo rimase colpito dalla sua reazione e dalle sue parole, sapeva che era una donna in gamba e che lo amava, ma non credeva fino a questo punto. Con voce dolce, disse: “Grazie per la tua comprensione. Cercherò di tornare migliore.”
Massimo era un uomo preciso, meticoloso, organizzato, ma nello stesso tempo imprevedibile e impulsivo. Doveva avere sempre tutto sotto controllo, altrimenti si disorientava e andava nel panico.
Per il viaggio che avrebbe affrontato la meta era sconosciuta, ma l’organizzazione della partenza era maniacale. Dall’abbigliamento tecnico che avrebbe indossato, alla scelta meticolosa dei pochi abiti che avrebbe portato, dai medicinali di base, agli oggetti utili più disparati, senza lasciare nulla al caso. In quelle tre borse rigide che equipaggiavano la CAM AM, non ci sarebbe stato un grammo di roba che non fosse indispensabile, né un grammo che fosse inutile. Quando organizzava qualcosa aveva il dono di avere una visione d’insieme, come un film che si proiettasse nella sua mente. Questo gli permetteva di prevedere l’imprevedibile e di avere sempre gli strumenti per affrontarlo, o almeno lo sperava. Anche quando faceva il pilota da corsa, questa sua visione lo avvantaggiava, salvo, a volte, vanificare tutto per il suo carattere appassionato ed impulsivo.
Una telefonata interruppe il suo lavoro di preparazione: “Ciao papo, a che ora passi a prendermi?” Lui, rispose: “Passo verso le tre, portati il casco, ho una sorpresa!” Lei, con voce ironica, disse: “Cos’è? Un altro cimelio su due ruote?” Lui, sorridendo, rispose: “Non fare tanto la spiritosa, poi vedrai! Ti stupirà!” Lei, col suo immancabile e dissacrante tono adolescenziale, disse: “Vabbè, vabbè…ci vediamo alle tre.”
“Noooooo, precio! Troppo figo! Dove l’hai trovato questo coso?!?” Federica era rimasta bloccata, poco fuori dal portone, guardando il padre a fianco della CAM AM. Mentre si avvicinava, il suo sorriso complice fu la conferma della sua approvazione. Abbracciò il padre senza riuscire a scollare lo sguardo da quella cosa. Massimo, disse: “Che ti avevo detto, che ti avrebbe stupito!?!” “E’ proprio precio, precisissimo!!! Mi ci fai fare un giro?” Ribatté Federica. Lui, orgoglioso, rispose: “Dopo. Adesso sali che ce ne andiamo a Fregene a rubare questo ultimo sprazzo di sole.” Quello strano triciclo passava meno inosservato di una Lamborghini color pistacchio. Col casco integrale in testa che gli copriva il volto, sembravano due fidanzati. Lei con un paio di Jeans dove erano più i buchi che la stoffa, una felpa grigio chiaro di Tommy Hilfiger, un paio di Nike bianche e i lunghi capelli castano biondi che volteggiavano nell’aria. Lui, stessi jeans, ma con meno buchi, un giubbino di pelle nera e un paio di mocassini Tod’s. Il rombo del tricilindrico ringhiava minaccioso fondendosi coi sibili dell’aria, per la gioia di quei due patiti di motori.
Dopo poco meno di mezz’ora erano davanti alla loro villa di Fregene: il cancello elettrico si aprì con una leggera esitazione e si richiuse subito dopo che ebbero parcheggiato. Felici di quell’assolato pomeriggio insieme, corsero a cambiarsi per andare in spiaggia.
Mentre stava lì, con la figlia, per un attimo, la sua decisione di partire vacillò – come faccio a stare due mesi senza di lei? A non vederla, non abbracciarla, non baciarla? – Quella, per lui, era veramente la parte più difficile e più critica. In 15 anni non si era mai separato da lei per più di 24 ore. Soltanto da quando era al College le separazioni si erano fatte obbligatoriamente più lunghe. Scacciò dalla sua mente quella nera nube, alzò gli occhi ad incontrare quell’azzurro cielo e prendendola per mano, disse: “Ti ricordi che ti dicevo quando eri piccola? Chi mette i piedi in acqua per ultimo non mangia il gelato!” Come due ragazzini, alzando una nuvola di sabbia, corsero a perdifiato verso il mare.
Massimo, sdraiato sul lettino, si godeva lo spettacolo, sempre emozionante, di quel tramonto e osservava quella figurina nera in controluce che nuotava in quel mare rosso. Alzò il braccio per dire a Federica di rientrare e lei gli rispose agitando le braccia. L’aria si era fatta fresca e Massimo le andò incontro con un asciugamano per non farle prendere freddo. Quando glielo mise sulle spalle e l’avvolse stretta, Federica, con uno scatto di insofferenza, disse: “Uffa, mi vuoi soffocare?!? Mi tratti sempre come se avessi cinque anni.” Lui, per niente offeso, disse: “Ah, già, dimenticavo che sei una donna adulta, quasi vecchia decrepita.” Lei, sorridendo e lanciandogli l’asciugamano addosso, disse: “Tu sei un vecchio decrepito. Copriti!” Risero insieme. Lei, aggiunse: “Dove andiamo a mangiare?” Lui, perdendosi negli occhi verdi della figlia, rispose: “Dove, se non in un posto per innamorati?!?” Lei, col suo tono dissacrante da adolescente, disse: “E quale sarebbe ‘sto posto da innamorati?!?” “Da Salvatore al Villaggio dei pescatori, ovviamente.”, rispose lui. “Ah, vabbè, dove ci stanno tutti i fichetti. Precio, si mangia bene!”
La grande pedana in legno, sulla spiaggia, ospitava una trentina di tavoli, già quasi tutti occupati. Il cameriere li accompagnò al loro tavolo, uno dei migliori e il più vicino al mare. Al centrotavola c’era una composizione di fiori, voluta da Massimo, illuminata da due candele, nel loro contenitore di vetro. Erano proprio una bella coppia, confermata dai sorrisi di assenso di alcuni commensali.
Mentre mangiava, Massimo continuava a ripassare nella mente quello che avrebbe dovuto dire a sua figlia, ma non trovava il coraggio, poi, mentre, per l’ennesima volta, ripassava il discorso, udì la sua voce e se ne stupì: “Amore, papà ti deve dire una cosa e spero che tu capisca. Ora sei abbaul grande per capire:” Federica, distogliendo lo sguardo dai suoi gamberoni, ancora con il boccone in bocca, disse: “Hai una nuova fidanzata?!?” Lui, preso alla sprovvista da quella domanda, sorridendo, disse: “Ma, no, che ti viene in mente!?! Sto sempre con Francesca.” Federica, quasi a non voler mollare l’argomento, con sguardo cospiratorio, disse: “Ma dì la verità, quante ce ne hai portate in questo posticino romantico?” Lui, quasi imbarazzato e con un sorriso imbecille, rispose: “Ma che domande mi fai? Non lo so…qualcuna…” “Sì, sì, qualcuna…” Disse lei, con occhi maliziosi. Massimo, facendosi serio, disse: “Amore, papà starà via per un paio di mesi.” Lei, sgranando gli occhi, disse: “E dove vai?!?” “Non so esattamente dove, parto con la CAM AM e girerò un po’ per l’Europa. Sto attraversando un momento critico e ho bisogno di staccare, di ritrovarmi.” Lei, col cinismo che contraddistingue i giovani, apparentemente non turbata per la provvisoria perdita del padre, disse: “Quindi dovrei stare per due mesi sempre da mia madre!?! Ma tu sei fuori. Vuoi farmi impazzire?!?” Lui, quasi offeso che il problema non fosse la sua mancanza, disse: “Non metterla sempre così con tua madre, lo sai che non mi piace. Il problema dei vostri scontri continui è che caratterialmente siete uguali, di papà hai preso solo il viso. Apposta sei bella! AhAhAhAhAhAh…” La battuta del padre strappò un sorriso anche a lei che, guardandolo con occhi imbronciati, disse: “Papo, mi mancherai, perché anche se litighiamo sempre, tu sei il mio papo preferito, ma se non stai bene, se hai bisogno, come dici tu, di ritrovarti, parti. Fai quello che devi fare. Però quando torni mi devi portare un sacco di regali. Anzi, prima di comprarmi qualcosa, la fotografi e me la mandi col telefonino. Se ti dico ok, la compri.” Lui, rasserenato e rassegnato, ironicamente, disse: "Sì, mia badrona!” Poi, aggiunse: “Mi mancherai anche tu, mi mancherà il tuo caratteraccio e i tuoi baci ruffiani. Per molto, sei stato l’unico ostacolo alla mia decisione di partire. Poi ho pensato che avresti capito, che comunque vuoi un padre che guarda al futuro, non al passato, un padre “precio”, non un rompipalle depresso.” Lei, con la sua solita faccia da schiaffi, disse: “Precio, sei precio, lo dicono anche i miei amici, in quanto al rompipalle spero che tu possa migliorare un po’. Dai, adesso fammi provare ‘sto coso.” Massimo, tirò fuori dal bauletto una giacca a vento e, porgendola alla figlia, disse: “Mettila, che ha rinfrescato.” Lei, stizzita, disse: “Ma sto a morì de caldo! Mo me devo mette ‘st’affare?!?” Massimo, che non sopportava il suo linguaggio da coatta, disse: “Prima di tutto parla in italiano, secondo, se vuoi fare un giro di metti la giacca a vento.” Lei, indossandolo, rabbiosamente, disse: “Oh, ma sei proprio un rompipalle!”
A Massimo non fu necessario darle molte istruzioni, in un attimo aveva già capito tutto. Saltò in sella e avviò il motore. Prima che partisse, Massimo, disse: “Attenzione, non partire a palla, è uno strano aggeggio con uno strano comportamento, prendici un attimo la mano e poi smanetta. Mi fumo una sigaretta e ti aspetto qui. Oh, non tornare tra mezz’ora. Ok?!?” Era già partita, e il suo Ok di risposta echeggiò nell’aria.
Un rombo, al limite del fuorigiri, annunciò il ritorno di Federica. In un baleno si tolse il casco, con occhi eccitati e con un sorriso smagliante, disse: “E’ fighissimo! Quando torni me lo devi prestare, è veramente precio!” Lui, guardandola con orgoglio e tenerezza, disse: “Sei proprio matta come tuo padre.”
Quella sera chiacchierarono fino a tarda ora. Federica, cosa rara, quella sera aveva voglia di confidarsi e come un fiume in piena parlò degli amici, della scuola, dei suoi primi amorini, delle sue incertezze, delle sue paure, dei suoi sogni. Massimo non poteva farsi sfuggire quell’occasione e l’ascoltò con interesse, intervenendo raramente con consigli e rassicurazioni. Alla fine, esausto ma felice di tante confidenze, disse: “Stasera mi hai ricordato di quando eri piccola, che parlavi, parlavi, parlavi per ore e io che ti dicevo che se avessi avuto un pulsante per spegnerti saresti stata una bambina perfetta. Ahahahahahah.” Lei, facendo una finta faccia offesa, disse: “Non per mancarti di rispetto, ma sei un bello stronzone.” Gli buttò le braccia al collo e, stringendolo forte, disse: “Buonanotte papo, sei il migliore del mondo.”
Massimo fu svegliato dall’insistente e irritante squillo del telefono; prima di rispondere guardò l’ora, era quasi mezzogiorno, poi sullo schermo lesse il nome, Cecilia, e rispose: “Ciao Cecilia a cosa devo questa chiamata di buon mattino?” Ci fu una piccola pausa, poi rispose: “Walter è Morto.” Massimo sentì due gelide mani afferrargli lo stomaco, lasciandolo senza respiro; tentando di parlare, con voce soffocata, disse: “Ma come?!? Così all’improvviso?” Cecilia, rispose: “Si è suicidato. Stamattina mi sono svegliata presto e lui non c’era. Ho pensato che fosse uscito, sono andata al box per vedere se c’era la macchina, mi sono avvicinata, c’era puzza di fumo e un ronzio che veniva dall’interno, ho alzato la saracinesca e sono stata investita da una nube di fumo acre e irrespirabile. Quasi soffocavo. Istintivamente, ho fatto qualche passo indietro e mi sono coperta il naso e la bocca con un lembo della vestaglia. Ho capito subito cosa era successo, lo sai com’era, no?!? Non avrebbe mai accettato di aspettare di morire soffrendo. Ha sempre voluto decidere lui quando morire.” Massimo per un attimo fu sollevato dalla notizia, dal sapere che il suo amico non avrebbe affrontato una lunga agonia, ma subito dopo fu sopraffatto dal dolore per la sua perdita. Con voce pacata, disse: “Ora sono a Fregene con Federica, passerò a trovarti nel pomeriggio.” Si buttò indietro sul letto e, fissando il soffitto striato dalla luce che filtrava dalle persiane, con lucida freddezza, pensò al dolore che si prova quando si perde una persona cara. Non si soffre per il defunto, ma per sé stessi, per la sua assenza, per quello che ti verrà a mancare, per quello che non potrai più chiedere, per quello che non ti potrà più dare. Le strisce di luce sul soffitto si fecero sfuocate e un leggero solletico sulle gote gli fece capire che stava piangendo. Poi, arrivò la vita, sfacciata, forte, prepotente. Federica, con la sua solita grazia, si era lanciata sul letto, facendolo sobbalzare, gridando: “Buongiorno papino, è pronta la colazione?” Subito dopo, si accorse delle lacrime del padre e, accarezzandogli il viso per asciugarlo, con tono basso e spaventato, disse: “Papà, che è successo? Perché piangi?” “E’ morto Walter.” rispose lui. “Zio Walter?!? Oh Diooooo! Ma come è morto?” Massimo, omettendo parte della verità, rispose: “Era molto malato. Aveva un brutto male e stanotte se n’è andato.” Lei lo abbracciò forte e, col calore della sua vita, in un attimo, sciolse quel funereo ghiaccio che lo aveva avvolto.
Il cancello della villetta sulla Giustiniana era aperto, Massimo parcheggiò fuori, nel piccolo giardino c’erano una decina di persone, tra parenti e amici. Cecilia, appena lo vide, gli andò incontro. Sembrava improvvisamente invecchiata di dieci anni. Non è che si fossero mai stati particolarmente simpatici, ma il comune affetto per Walter cancellò in un attimo ogni antico, personale risentimento. Massimo l’abbracciò, non disse una parola, lasciò che quell’abbraccio le comunicasse tutto il suo dolore e il suo cordoglio.
Salutò frettolosamente i presenti, non volle vedere l’amico, non per vigliaccheria, ma perché, come per ogni altro lutto, non aveva mai voluto che quell’ultima silenziosa, fredda, statica immagine, inquinasse i suoi ricordi. Voleva, pensandolo, ricordare il suo sorriso.
Prese da parte Cecilia e, con tono quasi autoritario, disse: “Dammi il suo casco.” Cecilia, frastornata da quella strana richiesta, disse: “Che casco? Quale casco?” Lui, rispose: “Il suo casco da moto. Voglio portarlo con me. So che sarebbe voluto venire.” Cecilia, sorridendo, disse: “Ah, sì, il suo casco. Quando parlava della tua imminente partenza gli si illuminavano gli occhi. Sì, sarebbe voluto venire.” Entrò in casa e ne uscì poco dopo col suo casco a stelle e strisce, stile Heasy Rider. Glielo porse e stringendogli il braccio con l’altra mano, disse: “Portalo con te. Fate buon viaggio.”
Salì in macchina, poggiò il casco sul sedile di fianco e accarezzandolo con la mano, come se accarezzasse la testa del suo amico, avviando il motore, disse. “Andiamo.”
Mentre salutava Federica, davanti al portone del college, sentì come uno strappo al cuore, come se volesse lasciare il suo corpo e rifugiarsi nello zainetto di sua figlia, come se l’unico posto dove si sentisse veramente a suo agio fosse quello. Cercò di mascherare la commozione e, prendendole il viso tra le mani, la baciò delicatamente sulle labbra. Tenendola ancora così, disse: “Papà è con te, sempre! Fai la brava, non “scapocciare”, non rispondere male ai professori e non mi deludere. Chiamami quando vuoi, sei l’unica che ha il permesso di farlo 24 ore su 24. Tornerò presto, tornerò in tempo per il tuo compleanno, tornerò migliore.” Lei, guardandolo con quegli occhi che lo incantavano, disse: “Per essere migliore non c’è bisogno che parti, per me già sei il migliore.” Subito dopo, come fosse un’adulta, disse: “Stai attento, non correre, ho ancora bisogno di te. Torna quando penserai di poter essere felice. Ciao papo, buon viaggio!” L’abbracciò forte, quasi non valesse più lasciarla andare via, poi lasciò la presa, lei si allontanò, e prima di scomparire dietro al portone, si voltò, gli sorrise e gli fece un cenno di saluto con la mano. Quando il portone si chiuse, Massimo si sentì veramente solo, solo col suo bagaglio di insoddisfazioni, di rimpianti, di paure.
Mentre tornava, la radio passò un pezzo dei Maneskin, alzò il volume e sorrise. Amava quei ragazzi, perché era l’unico gruppo musicale che era riuscito a farlo andare d’accordo con sua figlia. Erano anche andati a un concerto, scatenandosi insieme per i loro beniamini.
Si versò un whisky e, con in una mano il bicchiere e nell’altra la sigaretta, fece l’ultimo, meticoloso, inventario prima della partenza. In questo era maniacale, come quando correva in macchina: nulla doveva mai essere lasciato al caso, neanche il minimo particolare, altrimenti era destabilizzato, sentiva di non avere il controllo. In fondo, sperava anche che questo viaggio, in qualche modo, lo liberasse da questa sua rigida e metodica visione della vita. Che lo rendesse più elastico e leggero.
Quando sei cosciente dei tuoi limiti, sei anche in grado di superarli.
Il suo look era perfetto: tuta da motociclista in pelle nera e casco integrale rosso come la CAM AM. D’altronde, era più forte di lui, anche senza studiarci sopra non riusciva mai a non avere il look perfetto per ogni occasione. Era una questione di stile.
Pigiò il pulsante dello starter, subito seguito dal ronfo metallico del tricilindrico, guardò il suo cronografo Rolex Daytona di acciaio, come prima della partenza di una gara, che segnava le ore 8:00, abbassò la visiera del casco e, ingranando la prima marcia, partì verso l’ignoto.
Che sensazione magnifica, il viaggio: non è importante dove andrai, è la sensazione, l’illusione di lasciarti tutto alle spalle che rende affascinante il viaggio. Quando sei arrivato alla meta l’illusione scompare e tutto quello che pensavi di aver lasciato ti raggiunge in un baleno, come se avesse viaggiato in incognito nascosto nel tuo bagaglio.
Imboccò l’autostrada con la mente sgombra, rivolta solo alla guida, come suo solito non resistette alla tentazione di un allungo. Il motore urlò tutta la sua potenza oltre gli 8000 giri e la lancetta del tachimetro oltrepassò di poco i 200 km/h che, detto tra noi, è come andare a 300 su un’automobile con quattro comode e rassicuranti ruote. La sua dose di adrenalina mattutina l’aveva ristorato come un buon caffè, chiuse un po’ la manopola del gas, rallentò fino a 160 all’ora e, col vento che gli carezzava la tuta, proseguì il viaggio.
All’altezza di Firenze si fermò per fare rifornimento, per fumarsi una sigaretta e per decidere se andare a sinistra o a destra, cioè verso Genova o verso Bologna. Immancabilmente alcuni curiosi si avvicinarono per chiedere informazioni su quello strano coso: che cos’è, a quanto va, quanto costa… Capì, malvolentieri, che questo lo avrebbe accompagnato per tutto il suo lungo viaggio.
Eri lì, seduto sulla CAM AM, senza riuscire a decidere da che parte andare, senza immaginare una direzione da prendere. La nostra mente, scavando nei ricordi, sfogliando rapidamente l’archivio del nostro passato, ci suggerisce momenti felici da rivivere e, a nostra insaputa, ci indica la strada.
Ricordò il suo primo viaggio all’estero, poco più che ventenne, con la sua prima Porsche di seconda mano, una Carrera 3.2, nera. Si era da poco lasciato con Paola, il suo grande amore adolescenziale, e decise impulsivamente di raggiungere i suoi amici a Tossa de Mar, in Spagna, sulla Costa Brava.
Partì all’alba, attrezzato con cartine stradali e due tascabili Italiano/Francese e Italiano/Spagnolo. Col francese se la cavava abbaul, lo aveva studiato alle medie e al liceo. Con lo spagnolo, zero, ma come si dice, basta aggiungere una esse all’italiano ed il gioco è fatto, o almeno così pensava.
Verso l’ora di pranzo arrivò a Nizza, aveva bisogno di sgranchirsi un po’ le gambe e di mangiare. Ingenuamente cercò l’insegna di un ristorante italiano. Non l’avesse mai fatto! Mangiò di schifo e scoprì che l’anziano e grasso proprietario dell’italiano si ricordava a stento le parole pizzà, spagettì e lasagnè, peccato che non si ricordasse più come si cucinavano. Si rimise in viaggio imparando la prima lezione: all’estero, non andare mai in un ristorante italiano.
La Porsche andava alla grande. Poco prima di mezzanotte, finalmente, arrivò al confine con la Spagna. Era stanco e decise che a quell’ora di notte non era il caso di proseguire. Si infilò in un grande parcheggio, dove si trovavano già molte altre persone che avevano avuto la sua stessa idea e, seduto, impalato, sul sedile non reclinabile dell’auto, tentò di dormire. Ovviamente, non dormì molto bene, ma finalmente arrivò l’alba. C’era già un brulichio di macchine e di persone in procinto di attraversare il confine.
Verso le dieci di mattina arrivò all’Hotel Marina Tossa, dove l’aspettavano i suoi amici, Bruno e Roberto. Li conosceva da poco, lavoravano nella stessa società ed erano le persone giuste per trascorrere una vacanza indimenticabile. Bruno, figlio di un ricco commerciante, aveva vissuto buona parte della sua infanzia in Brasile: forse derivava da quello la sua perenne abbronzatura. Non alto, capelli neri ricci, un sorriso accattivante, modi signorili, una naturale propensione al riso e alla goliardia. Roberto era romano, di origini modeste, capelli castani, fisico atletico, faccia da duro, ma buono come il pane.
Appena lo videro gli saltarono addosso per abbracciarlo. Bruno, col suo sorriso malizioso, disse: “Aho, questa non è Tossa de Mar, questa è Tossa de Fica!” Gli fece eco Roberto, dicendo: “Non poi capì! Mai vista tanta fica in vita mia!” Felice di averli rivisti, disse: “Beh, allora sono arrivato nel posto giusto.” Bruno disse: “Dai, sali in camera, cambiati, che ce ne andiamo subito in spiaggia. Ti aspettiamo.”
Spiaggia con finissima sabbia bianca, intervallata da suggestivi scogli, acqua limpida e turchese, un’orgia di villeggianti, quasi tutti giovani, e un numero infinito di sirene in mini bikini, da togliere il fiato. Si tuffò subito in acqua, dovendosi rinfrescare dal lungo viaggio e smaltire la stanchezza. Bruno e Roberto lo relazionarono, minuziosamente, sul luogo, le abitudini, i ristoranti, le discoteche e su quanto fosse facile rimorchiare.
La sera e la notte erano il momento clou di quella località. Un parco giochi per adulti, tra bar, pub, ristoranti, negozietti, luci, musica, risate, ragazzi di tutte le nazionalità uniti da un unico scopo: divertirsi! Mai visto nulla di simile in Italia, neanche a Rimini e a Riccione.
Quella sera, dopo cena, andarono in una delle discoteche più “in”. Per entrare c’era la fila e non tutti alla fine avrebbero avuto il privilegio di entrarci. Bruno e Roberto, che avevano già imparato tutti i trucchi del mestiere e si erano fatti le amicizie giuste, scavalcando buona parte della fila, furono fatti passare senza nessun problema e con cordiali sorrisi dai “gorilla” all’ingresso. All’interno, un paradiso infernale, con luci psichedeliche e musica a palla. Sembrava la torre di babele, tante lingue, ma nessuna difficoltà di comprensione, con il linguaggio del corpo che superava ogni barriera, ogni razza, ogni ideologia, ogni status sociale. Massimo si tuffò in quel mare di spensieratezza e di voglia di vivere.
Bruno, urlandogli nell’orecchio per farsi sentire, disse: “Vieni, che ti presento il boss di Tossa. Un napoletano fichissimo sempre pieno di donne.” Facendosi largo tra la folla, arrivarono in un angolo appartato del locale, con tre grandi divani bianchi e un tavolo basso di cristallo, pieno di bicchieri, bottiglie e secchielli del ghiaccio da dove spuntavano affusolati colli di bottiglie di champagne. Spaparanzato sul divano c’era Rocco, il boss, con a fianco quattro schianti di ragazze, due per lato. Completavano l’allegro gruppo altri due trentenni ed altre sei ragazze, da far invidia alle conigliette di Playboy. Rocco era un bel ragazzone sulla trentina, pieno di capelli neri, lucidi, spettinati, abbronzatura da record che faceva maggiormente risaltare i suoi empatici occhi verdi, denti bianchi, come i tasti di un pianoforte, che sembravano suonassero risa contagiose, camicia bianca sbottonata fino all’ombelico. Accolse Bruno col calice dello champagne issato verso l’alto, gridando: “Guagliò, vieni qua, assit’t!” Massimo fu presentato e si aggiunsero a quell’allegra compagnia. Non essendoci praticamente più posto per sedersi, con aria gentile, ma decisa, Rocco, rivolgendosi ad alcune ragazze, disse: “Fate posto ai miei amici, andate a muovere il vostro culetto in pista.” Le tre “conigliette”, sorridendo come galline, si alzarono e, con loro grande imbarazzo fecero posto ai tre amici.
Era in paradiso, in un posto fantastico, con amici simpatici, al tavolo del boss, tra mille donne, che poteva volere di più? Eppure non era felice, gli mancava Paola, gli mancavano i suoi occhi, il suo sorriso, i suoi baci, le sue frecciatine e la sua dolcezza, la sua gelosia e il suo amore. Come si vede nei film americani, bevve per dimenticare o forse, semplicemente, per non pensare.
A fine serata, verso le quattro del mattino, Rocco, parlando con Bruno, disse: “A Bru, domani parto per una settimana per affari, se vuoi vi lascio casa, la macchina e tutto quello che c’è dentro. Non pozzu lascià orfani tanti bravi ragazzi. Fate come foste a casa vostra, basta che non gli appicciate ffoco. Vabbuono?!?” Bruno, che ormai non era più molto lucido, come nessuno dei presenti, rispose: “Non ti preoccupare, ci pensiamo noi a guardarti la casa. Parti tranquillo, basta che ce lasci qualche bella pollastrella. Ahahahaha, ahahah, ahahah.” Cercherò di tradurre il contenuto e il significato della frase di Rocco. Nessuno sapeva esattamente cosa facesse Rocco per vivere, qualche ipotesi la fecero i tre amici, ma non mi sembra questa la sede per fare pettegolezzi. L’unica cosa certa era che aveva un sacco di soldi e un gran cuore. Quella che lui chiamava la “casa”, era una delle più belle ville di Tossa de Mar, con mega piscina a forma di fagiolo, circondata da palme. La “macchina” era una Rolls Royce Cornice cabrio, azzurro metallizzato con interni di pelle umana color panna. “Tutto quello che c’è dentro” era una coppia di cileni, moglie e marito, tuttofare, che si occupavano della cucina, delle pulizie, del giardino,…. “Non posso lasciare orfani tanti bravi ragazzi”, voleva dire che non poteva lasciare per una settimana, tanti ragazzi, senza le mega feste che organizzava nella sua villa. L’unica condizione era quella di non incendiargli la casa. Questa offerta diede una svolta decisiva alla loro, già fantastica, vacanza.
Dopo la partenza di Rocco, i pomeriggi, con la Rolls Royce, facevano avanti e indietro sulla via principale della città, con Bruno che, sbracciandosi dall’auto, gridava: “Stasera festa a Villa Blanco! Tonight party al Villa Blanco! Esta noche fiesta en Villa Blanco! Hente aben party in der Villa Blanco! Soirée ce soir à la Villa Blanco!” Erano acclamati come delle rock star!
La villa apriva i cancelli a mezzanotte e, quando andava bene, li richiudeva alle otto del mattino. In quel lasso di tempo, succedevano cose che non basterebbe un altro libro per descriverle. Un paio di ragazzoni del posto, che si prestavano per amicizia e convenienza, facevano da gorilla, cercando, quanto possibile, di fare una selezione dei numerosi partecipanti. Per esempio, non facevano entrare quelli che erano già sbronzi fradici, gruppi di soli ragazzi sfigati senza donne, persone di età superiore ai 35 anni e così via.
Matias e Florencia, la coppia di cileni, erano abituati a quelle feste ed erano dei collaboratori insostituibili, sempre sorridenti e disponibili. Per una questione di “sicurezza pubblica”, era vietato occupare o appartarsi in luoghi della casa che non fossero il salone e l’enorme giardino, ma non era sempre facile far rispettare le regole. Musica a palla, fiumi di alcool, birra, champagne e non solo. Mediamente ogni notte c’erano non meno di 400/500 persone ed altrettante erano state costrette a restare fuori. Mediamente ogni notte, dopo le quattro del mattino, la metà erano nudi o seminudi. L’altra metà era in piscina vestita o infrattata in qualche angolo del giardino o della casa a copulare. Tutti erano ubriachi!
Bruno si occupava principalmente delle public relations, Roberto dell’ordine e della sicurezza, Massimo, essendo il più carino, dei rapporti col sesso femminile.
Pur non andandosela a cercare e nonostante la sua timidezza, non c’era una notte che non si trovasse a letto con almeno un paio di ragazze mozzafiato, quasi mai italiane. Le italiane, si sa, se la tirano troppo. Socializzò con mezzo mondo. Una specie di ONU del sesso.
Dopo nottate del genere, era difficile che si andasse al mare prima delle due del pomeriggio, infatti era meno abbronzato di quando ero partito. La mattina le spiagge erano deserte, frequentate soltanto da famiglie e bambini urlanti.
Un giorno decisero di fare pausa, anche perché i poveri Matias e Florencia erano allo stremo. Si organizzarono con un gruppo di scalmanati per andare a Lloret de Mar, nella famosa discoteca Revolution. La sera cenarono in un ristorantino caratteristico, con piccoli tavoli all’aperto, in compagnia di Margaret, Kerstin e Camille. Una sorta di UE ante litteram. Roberto, involontariamente, diede spettacolo. Non so bene a cosa gli servisse, ma gesticolando, in direzione del cameriere, cominciò a gridare: “Camarero, camarero, portame un po’ de burro. Burro!” Il cameriere, un ragazzone con la barba, gli buttò un’occhiataccia da lontano, ma non venne. Roberto, sempre gesticolando con la mano alzata, ripetette: “Burro, burro!” Il cameriere arrivò con le mani sui fianchi e minacciosamente, disse: “Burro?!? Eres un burro!” Roberto, spazientito, disse: "Sì, burro. Burro!” Per fortuna intervenne Bruno, che un po’ di spagnolo lo masticava, e singhiozzando dalle risate, disse: “A Robè, gli stai dando dell’asino, apposta è incazzato! Ahahahahah. Burro, in spagnolo, significa asino. Ahahahahah.” Poi, rivolgendosi al cameriere, disse: “Lo siento, mi amigo queria mantequilla.” Per fortuna il cameriere capì l’equivoco e sorridendo si allontanò. Roberto, imbarazzato, disse: “Sti cazzo de spagnoli, ma come parlano? Mo me spalmo un asino sul pane!” Cercarono di tradurre l’accaduto alle loro amiche e cominciarono tutti a ridere, senza più riuscire a prendere fiato.
Finita quella ilare cena, fecero una passeggiata per le viuzze del paese. Era l’ora di punta, locali di ogni tipo erano gremiti di giovani che, con le loro diverse lingue, creavano nell’aria, già satura di profumi di birra, alcool e spinelli, suoni armonici e dissonanti.
L’eco della musica, che riempiva l’aria di quella stellata notte d’estate, gli annunciò che erano quasi arrivati a destinazione. Nel buio della notte, gli apparve questa bianca, imponente, cattedrale della musica e del divertimento: Il Revolution! Un’immensa arena ovale, dove invece dei gladiatori che rischiavano la vita, c’erano giovani che rischiavano la sordità. Lampi di luci multicolori, seguendo il ritmo dell’assordante musica, illuminavano, a intervalli, una moltitudine di corpi in movimento, come onde sul mare. Non avevano mai visto nulla di paragonabile.
Con le loro simpatiche amiche si buttarono nella folla. Ne uscirono, non si sa bene come, verso le prime ore dell’alba.
Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quelle vacanze volsero al termine. Bruno e Roberto erano già partiti da due giorni.
Massimo partì da Tossa de Mar che era già tarda mattinata, dopo saluti vari, abbracci, baci e promesse di rivedersi presto, coi nuovi amici e amiche di avventura. Nel ritorno da una vacanza ti accompagna sempre un po’ di tristezza, di nostalgia, di rimpianto, di paura, all’idea di dover riaffrontare la routine della vita quotidiana. Quel viaggio non fece eccezione, anzi… Per quanto fosse stato distratto e stordito da quella fantastica avventura, il pensiero di Paola non lo aveva mai abbandonato. Si sentiva mutilato, era come se gli mancasse una parte di sé.
La radio trasmetteva canzoni francesi e i suoi pensieri correvano più veloci della sua macchina, quando, poco prima di Narbonne, sul bordo della strada, vide una ragazza che, col pollice alzato, faceva l’auto-stop.
Era bianchissima di carnagione, lunghi capelli lisci, biondo platino, alta, magra, con un lungo vestitino con motivi provenzali e uno zainetto sulle spalle. Era così eterea, che sembrava un angelo caduto dal cielo. Massimo si fermò, lei gli venne incontro, abbassandosi all’altezza del finestrino (fu lì che vide i suoi occhi grigio-azzurri e il suo sorriso gentile) e in francese disse: “Ciao, puoi darmi un passaggio fino ad Avignon?” Incantato, rispose: “Ti posso accompagnare per un po’, io poi proseguo sulla strada costiera, sto tornando a Roma.” Lei, aprendo lo sportello e accomodandosi in macchina, disse: “Va bene, grazie, mi porterai fino a Nimes, poi da lì troverò un altro passaggio.” Appena furono ripartiti, lei disse: “Mi chiamo Chantal.” Lui, in quel momento, pensò che un nome più bello e più francese di quello non potesse averlo. Voltandosi per un attimo verso di lei e porgendogli la mano, disse: “Io sono Massimo.” La sua mano era esile, con lunghe dita affusolate, provò un’emozione a quel contatto.
Era timida anche lei e durante il tragitto non parlarono molto, giusto qualche frase di convenienza e qualche informazione di conoscenza. Dopo un paio d’ore, erano a Nimes, accostò la macchina sul ciglio della strada e stava per salutarla, quando, all’improvviso, si rese conto che non poteva far volar via quell’angelo, che aveva ancora bisogno di stare con lei. La guardò imbarazzato e con un sorriso ebete, disse: “Dai, ti accompagno fino ad Avignon.” Lei, ringraziandolo con gli occhi e col sorriso, richiuse lo sportello.
Chantal aveva 21 anni, la sua stessa età, era di Strasburgo e frequentava la facoltà di lettere e filosofia. Era ad Avignon in vacanza, in compagnia di altri amici. Era così diversa da tutte le ragazze che aveva conosciuto e frequentato a Tosse de Mar, era l’esatto opposto, e poi sentirla parlare in francese era come musica. Pensò che il francese fosse la lingua più sensuale e femminile del mondo.
Dopo poco meno di un’ora arrivarono ad Avignon, la città dei Papi. Era tardo pomeriggio e faceva molto caldo. Lei lo prese per mano e, facendogli da cicerone, lo portò in giro per la città. Arrivarono fino al “Palais des Papes”, un enorme e suggestivo edificio gotico, lì si sedettero su un gradino e lei gli raccontò tutta la storia di quel palazzo e dei Papi che vi avevano risieduto. Lui, capì non più del 50% di quello che lei diceva, ma era comunque un piacere sentirla parlare. Si fece sera, a malincuore disse che sarebbe dovuto ripartire. Lei, con la sua naturale dolcezza, tirandolo per mano, disse: “Ma devi mangiare, il viaggio è lungo. Dai, vieni all’ostello che ti preparo qualcosa.” La seguì, come un cucciolo segue il suo padrone. Arrivati all’ostello, rispondendo al saluto di altri ragazzi e presentandolo ad alcuni di loro, lo portò fino alla mensa, lo fece sedere ad un tavolo, e rassicurandolo, disse: “Aspettami qui, ti preparo qualcosa da mangiare e torno. Vuoi un po’ di pasta?”. Incoscientemente, rispose: “Sì, grazie.”. Tornò dopo un po’ con due fumanti piatti di spaghetti al pomodoro e una Coca Cola. L’aspetto non era dei più invitanti: i poveri spaghetti erano accasciati sul piatto, segno della loro eccessiva cottura, e ricoperti da una salsa di color rosso intenso. Mise in bocca la prima forchettata e i suoi sospetti vennero confermati. Erano, ovviamente, scotti e la salsa era una specie di aspra conserva di pomodoro. Lei, sorridendogli, disse: “Buoni?!?” Lui, mentendo spudoratamente, rispose: “Buonissimi!” Lei, guardandolo con quegli occhi color cielo prima di una tempesta, facendo una smorfia con la bocca, disse: “Lo so che stai mentendo! Nonostante mio padre faccia il cuoco, io in cucina sono un disastro e poi, per un italiano, questi spaghetti difficilmente possono essere definiti buoni. Ahahah, ahahah.” Lui, disse: “Touché! Ahahahahah, ahahahahah.”
Finita la “cena”, venne il momento di salutarsi: lei lo accompagnò fuori dell’ostello, fino alla macchina. Parlarono più con gli sguardi che con le parole. Avrebbero voluto dirsi mille cose, farsi mille promesse, ma non ci riuscirono. Alla fine, un abbraccio e un semplice “Adieu!”
Massimo partì e gli sembrò di aver dimenticato qualcosa, come quando esci di casa e fai l’inventario di quello che puoi aver dimenticato: i soldi, le chiavi, gli occhiali, il gas acceso. Fece non più di cinque chilometri di strada, con i fari che bucavano il buio della notte, poi capì cosa aveva dimenticato, cosa gli mancava: lei!
All’improvviso fece un’azzardata conversione ad “U” e, pigiando forte sull’acceleratore, tornò sui suoi passi. I fari della macchina la illuminarono, era ancora lì, dove l’aveva lasciata. Non poté crederci, forse era solo frutto della sua immaginazione, non poteva essere ancora lì. Bloccò i freni, facendo stridere le gomme, scese dalla macchina e le corse incontro. Si abbracciarono come se non si vedessero da un secolo e si baciarono come se da quello dipendesse la loro vita. Massimo provò una sensazione di completezza, di ricongiungimento, di serenità, per aver ritrovato quello che avevo dimenticato e che avrebbe rischiato di perdere per sempre.
Lei disse semplicemente: “Je t'attendais. Je savais que tu reviendrais! »
Erano due ragazzi diversi, non più timidi, ma pieni di passione. Si dissero che si sarebbero scritti, che si sarebbero sentiti al telefono, che si sarebbero rivisti presto. Con quel bagaglio di speranza si salutarono e andarono ognuno per la sua strada.
Massimo riprese la strada del ritorno verso Roma, questa volta certo di non aver dimenticato nulla, certo di aver trovato qualcosa. Che strana la vita, per quindici giorni era stato circondato da belle ragazze, poi, quando tutto era finito, al ritorno, una ragazza che fa l’auto-stop, dà un passaggio al tuo cuore e lo porta in paradiso. Ma, questa è un’altra storia.
“Che figata ‘sta specie de moto!” Questa esclamazione interruppe i ricordi nei quali si era perso e lo riportò in un attimo alla realtà. Si guardò a fianco e vide un ragazzone coi capelli rasati, barba folta e numerosi tatuaggi che, guardandolo con un accattivante sorriso, cercava di attirare la sua attenzione. “Bella! Che cos’è?” Massimo, per l’ennesima volta, dette sintetiche informazioni e con garbo si accomiatò dal ragazzone. Lo vide allontanarsi verso un folcloristico gruppetto di Harleysti.
Decise di proseguire in direzione di Genova, voleva rivedere Tossa de Mar.
Massimo era soddisfatto di quell’acquisto, gli dava un onnipotente senso di libertà e più strada percorreva, da ex pilota e da ingegnere, più ne apprezzava le qualità.
Verso le quattro del pomeriggio arrivò a Sanremo: aveva sulle spalle già 650 chilometri percorsi, ma non si sentiva particolarmente stanco e poi era presto. Decise che avrebbe voluto cenare sul lungomare di Cannes o, perché no, nell’amata e trasgressiva Saint Tropez. Poi avrebbe deciso. Si sedette in un bar del centro storico di Sanremo, ordinò un caffè, si accese una sigaretta e consultò il suo iPod. Come da sue tassative disposizioni, non c’erano messaggi dal suo autosalone, ma messaggi di qualche amico, qualche seccatore e l’unico messaggio che gli interessava: “Ciao papino come stai? Dove sei arrivato? La prossima volta che decidi di fare un viaggio porti anche me. Non un viaggio di un mese perché sennò mi rompo, ma una quindicina di giorni si può fare.” Le rispose subito: “Ciao amore, sto benissimo, sto a Sanremo e mi sto bevendo un caffè, poi riparto e vado in Francia. Vabbè, che coi tuoi voti in geografia è come se ti parlassi cinese. Poi ti mando qualche foto per chiarirti le idee. Certo che lo faremo un viaggio insieme, col triciclo, è una figata. Mi raccomando, inizia bene l’anno scolastico, non fare come il tuo solito, che concentri tutto nell’ultimo mese. Non rispondere male alle Prof e comportati bene.” Federica non rispose con un messaggio scritto, ma con uno vocale: “Uffa, sempre a trattarmi male e a prendermi in giro, sei proprio insopportabile! Sì, sì, studio, non rispondo male e faccio la brava… ci provo. Ahahahahahahah. Ti voglio tanto bene. Divertiti!”
Percorrendo la Croisette, passò davanti al Grand Hotel de Cannes, dove aveva trascorso tanti soggiorni piacevoli, ma in quel momento decise di proseguire verso la più sbarazzina Saint Tropez: Cannes, specie in quel periodo di fine estate, era così formale che lo metteva quasi a disagio.
Arrivò a Saint Tropez quasi al tramonto, l’aria era tiepida e piacevole. Parcheggiò la CAM AM, si tolse la tuta, le scarpe e, come un ragazzino, a piedi nudi attraversò la spiaggia fino al mare. C’erano poche persone, qualche coppia di ragazzi che si scambiavano effusioni e un gruppetto di giovani, più rumorosi, che salutavano la fine di quella giornata con birre e colorati aperitivi. Massimo si sedette sulla spiaggia, vicino al mare, calmo e frusciante che, con la sua leggera risacca, gli lambiva i piedi. Adorava il mare, si fissava verso l’orizzonte e, come un gabbiano, volava verso l’infinito. Gli trasmetteva tanta pace e libertà.
Si fermò per la notte all’Hotel de la Ponche: incastonato in quel borghetto marinaro, gli ricordava un po’ Positano e Portofino. Gli ricordava anche tante giovanili scorribande e romantiche nottate. Erano almeno venti anni che non ci tornava, ma il direttore lo riconobbe subito e gli andò incontro con la mano tesa e con un sorriso sinceramente cordiale, esclamando: “ Monsieur De Labì, quel plaisir et quel honneur de vous revoir!” Gli strinse la mano calorosamente e, per sottolineare il suo entusiasmo, aggiunse alla stretta anche l’altra mano. Per Massimo, quell’accoglienza fu una piacevole sorpresa e lo fece subito sentire a suo agio, a casa.
Chiese che la cena gli venisse servita in camera perché era molto stanco del viaggio, ma in realtà era perché odiava cenare da solo. Quando andava al ristorante e vedeva una persona sola che cenava, si sentiva sempre molto a disagio per lei, pensando a quanto potesse essere sola da non riuscire a trovare qualcuno con cui cenare. Sue paranoie, come tante altre.
Di buon mattino era già pronto per partire, ma prima fece una passeggiata in spiaggia, respirò l’aria fresca e salmastra, godendosi quel che restava di quella fantastica alba. Anche quella volta, come tante altre volte davanti al mare, si disse che, divenuto più vecchio, si sarebbe ritirato in una casa affacciata sul mare.
Si mise in marcia con l’idea di fare tutta una tirata fino a Tossa de Mar, alzò gli occhi al cielo e vide nuvole scure che si rincorrevano velocemente, non promettendo niente di buono. Fece spallucce e partì. Per quanto corresse, dopo due ore circa di viaggio, quelle nuvole scure lo raggiunsero e, aprendosi, riversarono sulla terra l’ira di Dio. Massimo proseguì imperterrito per altri 10 chilometri, poi vide l’indicazione Avignon, gli balenarono nella mente altri ricordi e decise di andarci.
Nella sua mente ancora il ricordo di Chantal, di quella dolce ragazza francese con la quale c’era stata una promessa non mantenuta.
Dopo quel romantico addio, si erano sentiti spesso al telefono e dopo circa tre settimane, Massimo aveva deciso di raggiungerla a Strasburgo.
All’aeroporto di Strasburgo, tra tanta gente in attesa, scorse Chantal, era più bella di quanto si ricordasse. Da quell’addio, erano trascorse tre settimane e gli sembrava un’eternità. Attraverso i tanti messaggi e telefonate aveva imparato a conoscerla, a sapere tante cose di lei, della sua vita, del suo carattere. E’ incredibile come la diul sia capace di avvicinare e far raccontare cose che in presenza spesso non vengono dette.
Prese a noleggio una Golf blu e si diressero verso l’albergo. Durante il tragitto, Chantal disse: “Ora posi la valigia in Albergo e poi andiamo a pranzo dai miei genitori, che ti aspettano. Come ti ho già scritto, abitiamo fuori città e ci vorrà una mezz'oretta di macchina per arrivare.” Poi, con un tono dolce come una carezza, aggiunse: “In tutto questo tempo non ho fatto altro che pensarti, avevo paura di non rivederti più, come quella sera ad Avignon. Credo che ti avrei aspettato per ore.” Le accarezzò la mano che teneva poggiata sul suo ginocchio.
Dopo una trentina di minuti lasciarono la strada principale e deviarono su una stradina bianca che attraversava un bosco di abeti. Seguendo le sue indicazioni scorse una villetta, su due piani, col tetto spiovente come le case di montagna, con tegole antracite. Lei disse: “Siamo arrivati.” Incontrare i genitori di una ragazza lo metteva sempre in grande agitazione, figuriamoci francesi. Entrando c’era una grande sala soggiorno, con il camino, poltrone e divani. Gli venne incontro la madre, una donna bella ed alta, sulla cinquantina, che ossequiosamente lo salutò. Era già pronto in tavola, si accomodarono in un’ampia cucina, intorno ad un tavolo rotondo. Già sedute al tavolo, c’erano le tre sorelle minori di Chantal che, nel vederlo, fecero sorrisetti maliziosi tra loro. Erano tre belle ragazze anche se la più bella era sicuramente Chantal.
Timidamente, si presentarono e lui, più timido di loro, si presentò con ostentata sicurezza. Il padre, cuoco di professione, un grosso omone, calvo, di almeno 120 chili, era di spalle, occupato coi fornelli, si voltò appena e gli fece un bonario cenno di saluto.
Massimo si sentiva morire dall’imbarazzo e tra sé pensò: – “In che guaio mi sono cacciato? Ora che gli dico a questi? Chi li capisce? Mamma mia aiutami tu!”– Chantal, per fargli coraggio, gli stringeva la mano sotto il tavolo.
Cominciò il pranzo, si susseguirono numerosissime portate e ad ogni portata corrispondeva un nuovo, specifico, tipo vino. Il papà cuoco diede il meglio di sé e prova di squisita ospitalità. La conversazione fu scarsa a causa di un certo imbarazzo generale e di una oggettiva difficoltà di comprensione. Finalmente l’interminabile pranzo finì, Chantal lo prese per mano e, portandolo al piano superiore, lo fece entrare nella sua ul, chiuse la porta e lo baciò.
Si sdraiò sul letto e lo invitò a fare altrettanto. Lui, imbarazzato, disse: “Ma se entra tua madre?” Lei, con la massima naturalezza, serenamente, rispose: “Non lo farebbe mai! Se io accetto una persona, l’accettano automaticamente anche loro. E’ una questione di fiducia.” Gli sembrò di ascoltare un alieno, venuto da chissà quale galassia sperduta dell’universo e tra sè, pensò: “Proprio come da noi in Italia! Sempre con la lupara spianata. Ahahahah, ahahahah.”
Rassicurato si sdraiò anche lui e si lasciarono andare a dolci effusioni, sebbene, nonostante le rassicurazioni, fosse teso come una corda di violino. Chantal, con tono sensuale, nella sua ancor più sensuale lingua francese, disse: “Je veux faire l'amour avec toi! Allons à l'hôtel. » Il suono delle sue parole fu così chiaro e inequivocabile che non ci fu bisogno del traduttore.
Le cose più sofferte e più desiderate sono sempre le più belle. Quel momento lo avevano aspettato da tanto, lo avevamo coltivato, giorno dopo giorno, tra le righe dei loro messaggi d’amore. La lontananza acuisce i sensi, forse per compensare l’assenza fisica della persona amata. In quelle settimane i loro sensi si erano già incontrati, si erano già uniti, avevano già fatto l’amore. Quel giorno, in quell’albergo, fecero fisicamente quello che avevano già fatto. Non ci furono equilibrismi da kamasutra, lo fecero nel modo più tradizionale e scontato, ma fu intenso e bellissimo! Fare l’amore e sentirsi sussurrare: “Je viens, je jouis, je jouis,…” è l’esperienza erotica più fantastica che si possa immaginare. Lei fu così naturale e spontanea che Massimo si sentì un po’ provinciale. Da buon italiano, non riusciva a scrollarsi di dosso quell’inconscio senso del peccato legato all’atto sessuale. D’altronde, la religione cristiana è l’unica che si accanisca contro i piaceri del corpo. Fecero l’amore tutto il pomeriggio. Quando Chantal era felice i suoi occhi si rischiaravano, come se quelle leggere nubi grigie si dissolvessero e lasciassero spazio solo all’azzurro. Con quegli occhi limpidi e azzurri, con una voce che sembrava una carezza, gli sussurrò: “Je t’aime.”
Un attimo dopo, quelle nubi grigie tornarono nei suoi occhi e, con tono imbarazzato, disse: “Avrai capito che non sono più vergine!?! Non vorrei che questo ti avesse deluso.” Lui, guardandola con tenerezza e sorridendo, ironicamente, disse: “Amore, sarò anche italiano, ma non pretendevo certo che tu perdessi la verginità, aspettando me, sul ciglio di una strada col pollice alzato. Ahahahahah, ahahahaha.” Rassicurata, scoppiò a ridere anche lei. Incalzandola, disse: “A volte, voi stranieri, avete un’immagine un po’ retorica di noi italiani: pizza, maccheroni, mafia. Non siamo soltanto questo…siamo anche peggio! Ahahahahah, ahahahah.” Chantal ci mise un po’ a capire la battuta, per colpa del pessimo francese di Massimo e per colpa del suo scarso senso dell’umorismo franco-germanico, ma poi, finalmente, sorrise.
Verso il tardo pomeriggio uscirono, il cielo era grigio come quella grigia ma bella città, faceva già abbaul freddo e, mano nella mano, iniziarono il tour. Aveva un po’ di imbarazzo a passeggiare con lei, perché, senza tacchi, era almeno cinque centimetri più alta di lui. Si sentiva come un bambino a spasso con la mamma.
Cenarono in un bistrot e poi lo portò in giro per i locali frequentati da giovani, caratteristici del luogo. Era venerdì sera e, come in tutti i posti del mondo, ci si dava alla pazza gioia.
Arrivarono in un piazzale, dove su un prato verde era parcheggiato un grosso aereo, un bimotore a eliche, con lampeggianti insegne al neon. Salirono la scaletta, all’interno era pieno di ragazzi e ragazze, seduti su divanetti, con enormi boccali di birra in mano. Nella ex cabina del pilota c’era la postazione del deejey che, con le cuffie in testa, faceva volare in alto i decibel. A servire i tavoli c’erano belle hostess con tanto di divisa.
Dopo di lì, andarono in un altro bizzarro ed originale locale: questa volta era un enorme vagone passeggeri di un treno degli anni ’50, adibito a discoteca. Era pieno come un vagone di deportati, solo che in quel caso la gente si divertiva da pazzi. Trovarono posto su dei sedili, insieme ad un altro gruppo di ragazzi. Massimo, mentre stavo bevendo una birra, nella nebbia del fumo delle sigarette, ebbe una visione! Non voleva crederci. Aguzzò la vista e, sì, era lei, era proprio lei. Era Francoise Hardy! Era un suo fan, era pazzo di lei. Alta, magra, con quei lunghi capelli biondi e le labbra carnose, anche se non più giovanissima. In quel momento si rese conto che la sua Chantal le somigliava molto. Mise al corrente Chantal della sua passione per quella cantante. Lei, gli sorrise, si alzò e andò a parlare alla Hardy. Si salutarono affettuosamente, sorridendo: Chantal, per superare la musica assordante, le disse qualcosa all’orecchio, subito dopo lo guardarono e si avviarono verso di lui. Si conoscevano! Che coincidenza, che emozione. Avrebbe voluto sotterrarsi. La Hardy, con la sua voce calda e sensuale, guardandolo negli occhi, disse: “Comment ca va?” Lui, deglutendo, rispose: “Ca va bien!” Si trattenne con loro per un po’, conversando affabilmente, poi, gentilmente, salutò e raggiunse i suoi amici. Poi, Massimo scoprì che erano cugine. Ecco spiegata la somiglianza. Che serata indimenticabile!
Rientrarono tardi in Albergo, stanchi, allegri e con qualche squisita birra alsaziana di troppo. Lei infilandosi nel letto, ironicamente e senza falsa gelosia, disse: “Ti va bene lo stesso, anche se non sono Francoise Hardy?” Lui, di rimando, rispose: “Ti va bene lo stesso, anche se non sono Alain Delon? Ahahah, ahahah.” Andò benissimo a tutt’e due e fecero l’amore per quel che restava di quella magica notte.
Si svegliarono tardi, fecero colazione e programmarono la giornata. Il tour prevedeva la Cattedrale di Notre Dame, il Palazzo di Rohan, la Grand Ile, un giro sul battello, la Petit-France, shopping e bistrot. Era così piacevole stare con lei, così serena, dolce, determinata, piena di attenzioni per lui, che ci sarebbe andato anche in capo al mondo. La città era bellissima, ordinata, pulita, con un’atmosfera che era una fusione di raffinatezza francese e consistenza tedesca.
Chantal lo portò a cena in una “Winstube”, tipica taverna alsaziana. All’interno spiccavano le tovaglie rosse e una calda atmosfera di altri tempi. Prese in mano il menù, ma dopo una rapida scorsa, lo richiuse e poggiandolo sul tavolo, disse: “Ordina tu, perché io non ci capisco niente.” Lei, rise, poi facendo un cenno al cameriere, che arrivò con aria gentile e disponibile, in una lingua per lui incomprensibile ordinò la cena. Appena il cameriere si fu allontanato, con fare curioso, disse: “Sono affamato! Cosa mi farai mangiare di buono?” Lei, armandosi di pazienza e parlandogli nel modo più comprensibile possibile, disse: “Ho ordinato del Patè de foie gras, forse non lo sai, ma lo abbiamo inventato noi a Strasburgo, poi il Fleishenschneke, che sono delle girelle di carne con pasta, e infine i Choucroute, del cavolo salmonato. Da bere ho ordinato il nostro capolavoro, un Gewurztraminer.” Massimo, ironicamente, disse: “Spero che siano tanto buoni, quanto sono difficili da pronunciare. Ahahahahah.” Chantal si stava abituando alla sua stupida ironia e rise anche lei.
Finita la cena, con aria soddisfatta, disse: “Ho mangiato molto bene, era tutto buono e poi è bello scoprire i sapori di un altro paese. E’ un modo per entrare nel suo intimo.” Alzando il bicchiere, disse: “A noi, al nostro amore, al nostro futuro.” Restarono per un po’ a parlare e a sorseggiare quel magnifico nettare. Chantal, facendosi seria, disse: “Sono un po’ triste, domani partirai e non so quando ti rivedrò. Ti amo e vorrei vivere sempre con te. A proposito, i miei ci terrebbero a conoscere le tue intenzioni nei miei confronti, sai, sono persone all’antica… Se vuoi, domani andiamo a pranzo da loro e poi gli parlerai.” Era così preso da quella ragazza, che l’avrebbe sposata il giorno dopo. Con naturale sicurezza, disse: “Certo amore, domani gli parlerò. Gli dirò che ti amo e che voglio sposarti. Mi inginocchierò e chiederò la tua mano! Ahahahah.”
Aggiunse: “Ma tu, vuoi sposarmi?” Lei, con gli occhi azzurri e limpidi come un’alba d’estate, rispose: “Lo voglio da quella sera che, ad Avignon, ti ho visto tornare.”
Come al solito fecero uno di quei pranzi con diciotto portate e diciotto bottiglie di vino. Era una bella famiglia. Il padre e la madre, mano nella mano, su un divano del salotto, lui e Chantal, mano nella mano, sul divano di fronte. Radunando tutte le sue forze, per superare l’imbarazzo, formulando le frasi in italiano e cercando poi di tradurle in francese, disse: “Vi ringrazio per l’ospitalità. Sono qui perché amo vostra figlia e perché vorremmo sposarci. Spero che Chantal tra qualche settimana possa venire a Roma a conoscere i miei.” Il padre e la madre si sciolsero in un sorriso di approvazione e, anche se non capì esattamente cosa dissero, gli diedero il loro consenso.
Lo salutarono con un abbraccio affettuoso e le tre sorelle, ridacchiando, si misero in fila per baciarlo. Passarono in albergo per fare la valigia e fecero l’amore per un’ultima volta. Fu diverso, fu più intimo, più appassionato, come se quella dichiarazione d’amore avesse aperto delle porte socchiuse.
Il viaggio di ritorno in aereo non fu eccitante e piacevole come quello di andata. Tristezza e lacrime all’aeroporto, la preoccupazione nello scoprire che il tempo era pessimo, un vicino di sedile, di almeno duecento chili, che occupava anche la metà del suo posto. Per finire, poco dopo aver consegnato i vassoi per la cena, l’annuncio della hostess che comunicava turbolenze e chiedeva di agganciare le cinture di sicurezza. Con l’aereo che saltava come sulle montagne russe, Massimo scoprì che non soffriva di mal d’aria: mentre tutti erano con la faccia nel sacchetto di carta, lui cenava tranquillamente.
Una volta rientrato a Roma, ripresero la loro corrispondenza con messaggi d’amore interminabili e telefonate quotidiane. Anche se in fondo la conosceva poco, gli mancava molto, gli mancava il suo modo di essere diversa da tutte le ragazze italiane che aveva conosciuto. Un modo di essere più evoluto, più spontaneo, più paritario, meno provinciale e non giocato su innocenti o voluti ricatti morali: le ragazze italiane hanno sempre l’ambiguo modo di fare del gatto col topo.
Facevano progetti di quando sarebbe venuta a Roma a conoscere i suoi genitori e di tutto quello che c’era da organizzare per il matrimonio. Il problema o il vantaggio di quando si decide di sposarsi è tutto il tempo che trascorre prima di poterlo realizzare. Mesi, se non anni. Se così non fosse, Massimo si sarebbe già sposato. Ma il tempo dà la possibilità di riflettere, tutte le pratiche burocratiche civili e religiose ti demotivano, l’organizzazione della festa ti preoccupa, l’onere economico ti spaventa, la proiezione futura del “per sempre, finché morte non vi separi” ti annichilisce ed allora, all’improvviso, superando qualsiasi pulsione amorosa, ti viene spontanea una domanda: “Ma che sto facendo!?!” A quel punto il panico si impossessa delle tue viscere, il respiro diventa corto e affannoso, la tachicardia incalza, la bocca si fa asciutta e un sudore freddo si spalma su ogni centimetro della tua pelle. Quando sei arrivato a porti quella domanda e a provare quelle devastanti sensazioni, l’”amore” è in serie difficoltà!
Ahimé, Massimo era entrato in quella fase, l’amava sinceramente, ma era una prova troppo grande per lui. Ci stette male per molto tempo, poi, una settimana prima che lei partisse per venire a Roma, la chiamò al telefono e disse: “Amore, non so come dirtelo, è una settimana che non penso ad altro, che ci sto male, ma devo essere sincero con te. Non me la sento di continuare. Purtroppo con la diul che ci divide, l’unica possibilità per stare insieme è quella di sposarci, ma io non me la sento, non riesco a fare un passo così importante. Non ora. Ti amo! Aiutami tu, non so casa fare.” Lei, con tono sereno, ma triste, disse: “Che vuoi che ti dica? Quello che mi dici mi fa soffrire, ma rispetto la tua scelta. Oltre a dirti che ti amo e che avrei voluto sposarmi con te, non posso dirti altro. Non sono arrabbiata con te, sono solo un po’ delusa. Spero che tu sia felice. Adieu!”
Era ad Avignon, seduto in un pub, con in mano una tazza calda di caffè all’americana, con appesa ad una sedia la tuta zuppa che aveva fatto una piccola pozza d’acqua sul pavimento. Pensò con tenerezza a quel ragazzo poco più che ventenne, a quanto fosse diverso da lui. Ebbe rimorso per Chantal e rimpianto per lui.
Finalmente aveva smesso di piovere, fece una lunga passeggiata per la città, ripercorrendo, involontariamente, gli stessi luoghi che aveva percorso circa trent’anni prima, mano nella mano di quella dolce ragazza francese.
Era di nuovo in viaggio, il navigatore gli segnalava un tempo di percorrenza di circa 4 ore, quindi probabilmente avrebbe fatto in tempo di fare un bel bagno nelle acque limpide e calde di Tossa de Mar. Questo lo mise di buon umore, aprì il gas e fece ringhiare il suo rosso triciclo.
Come previsto arrivò poco prima delle cinque del pomeriggio e, senza starci tanto a pensare, si diresse verso l’albergo nel quale aveva alloggiato tanti anni prima. La cittadina non era caotica come la ricordava, ormai la stagione estiva era finita e i turisti erano pochi. D’altronde non era tornato in quel luogo per rituffarsi nelle pazze notti in discoteca, ma soltanto per ritrovare quel ragazzo arrivato con una vecchia Porsche e scambiarci qualche chiacchiera.
Dopo tanti anni, l’albergo era un po’ diverso, era rimodernato, ma non stravolto. Gli ospiti non erano molti e non fu difficile trovare una camera. Fu accolto con la cordialità e il calore caratteristici degli spagnoli e di chi vive di turismo. Massimo salì in camera, si cambiò rapidamente e senza esitare uscì di nuovo per raggiungere la spiaggia. Dopo dieci minuti era in acqua, con l’entusiasmo di un bambino al quale, fino a un attimo prima, era stato impedito di fare il bagno perché aveva mangiato da poco. Fece una lunga nuotata, poi, esausto ma sereno, si sdraiò sulla sabbia, chiuse gli occhi e si addormentò.
Si svegliò infreddolito, era già quasi buio, si rivestì e si incamminò verso l’albergo. Salì in camera, si fece una doccia, mise una camicia bianca e un paio di jeans. Per quella sera decise di cenare nel ristorante dell’hotel. C’erano poche persone e questo lo facilitò nel derogare dalla sua regola di non mangiare da solo in un ristorante. D’altronde, nel lungo viaggio che ancora l’aspettava, non avrebbe potuto fare altrimenti. In fondo, quel viaggio aveva anche lo scopo di uscire dalla rigida gabbia di regole nella quale si era infilato negli ultimi anni.
Con un discreto italiano, la cameriera che gli si parò davanti disse: “Il signore desidera ordinare?” Massimo la guardò e rimase per un attimo perplesso: aveva un che di familiare e, involontariamente, continuò a fissarla. La cameriera, imbarazzata dall’insistenza di quello sguardo, disse: “Vuole che intanto le porti qualcosa da bere?” Quasi risvegliato da quella voce, rispose: "Sì, grazie, mi porti un Rioja rosso.” La cameriera accennò un sorriso e si allontanò.
Massimo scartabellò per un po’ nell’archivio della sua mente, alla ricerca di quel volto conosciuto. Era una bella ragazza, mora, con scintillanti occhi neri, labbra rosse carnose e un fisico che, nonostante la rigida e austera divisa, non passava inosservato. Alla fine la trovò e tutto gli tornò alla mente, nitido, come se fosse stato il giorno prima. Solo che c’era qualcosa che non tornava. Se era lei, avrebbe dovuto avere almeno 50 anni!
Nello stesso ristorante di quello stesso hotel, trent’anni prima, c’era una cameriera che aveva fatto girare la testa e battere il cuore dell’amico Bruno, il quale non si era dato pace finché non era riuscito a portarsela a letto. In effetti, almeno per lei, non era stata soltanto una storia di sesso. Il simpatico Bruno aveva fatto breccia nel suo cuore, ma si sa come vanno a finire questi amori estivi, si parte e resta una cartolina illustrata buttata in un cassetto.
Massimo si disse che, certo, non poteva essere lei, ma sicuramente era la figlia.
La cameriera tornò al tavolo con la bottiglia di Rioja, gliela mostrò, poi l’aprì e, maneggiandola con maestria, ne versò appena nel calice. Massimo prese il calice, fece roteare delicatamente quel liquido rosso rubino, ne odorò i profumi di piccola frutta rossa e tenui nuance floreali, lo avvicinò alle labbra, ne sorseggiò un goccio e il palato fu invaso da un morbido sapore di frutta secca, mela e una nota di agrume. Posò il calice, fece un cenno di assenso con la testa e la ragazza versò il vino. Ordinò una banale “paella”, come dire, da noi, i bucatini all’amatriciana.
Quando ebbe finito di mangiare, la cameriera si avvicinò al tavolo e, garbatamente, disse: “Il signore desidera altro? Posso portarle un caffè?” Lui la guardò e con un sorriso innocente rispose: “Sì, un caffè!” Poi, aggiunse: “Scusami, devo farti una domanda…, tua madre ha lavorato qui molti anni fa?” Lei, presa alla sprovvista da quella domanda, rimase per un attimo perplessa, poi, con aria interrogativa, rispose: “Sì! Mia madre ha lavorato qui per ventotto anni, fino a due anni fa. Ma lei come fa a saperlo?” Massimo, le raccontò brevemente della sua vacanza di tanti anni prima e del suo stupore nel rivedere quella stessa ragazza che sembrava aver fermato il tempo. Ovviamente, omise di raccontare della storia della madre con l’amico Bruno.
Lei, per nulla intimidita, con tono schietto, disse: “Tra mezz’ora ho finito il turno, se le va possiamo fare una passeggiata sul lungomare, mi farebbe piacere parlare di mia madre.” Massimo, alzandosi da tavola, rispose: “Volentieri! Ti aspetto fuori, intanto mi fumo una sigaretta.” Lei, felice di quella risposta, disse: “Faccio in fretta. A dopo…”
Massimo era seduto su un basso muretto di pietre, dando le spalle all’albergo e con lo sguardo fisso verso il mare, buio come il cielo. L’unica cosa che segnava il confine di quella tenebra erano milioni di piccoli scintillanti diamanti che si contrapponevano a file discontinue di collane di perle in continuo movimento.
Sentì una leggera mano sulla spalla e un suono: “Eccomi!” Sussultò, perso com’era nei suoi pensieri e in quella infinita bellezza, si voltò e, sorridendo, disse: “Andiamo!”
Lei era bellissima, con i capelli sciolti, non più con la coda di cavallo; con un vestitino nero, leggero come l’aria, che l’avvolgeva e scopriva quello che andava scoperto, non più con quell’austera e castigata divisa; con tacchi alti, non più con quelle scarpe basse e bianche; solo gli occhi erano gli stessi, gioiosi, forti e decisi.
Gli disse che aveva 29 anni, che non aveva mai conosciuto il padre, che la madre era morta di cancro un anno prima e che, quando si era ammalata, il proprietario dell’albergo l’aveva presa a lavorare da loro.
Massimo fece due più due e gli si spalancò un mondo. Ventinove anni, padre sconosciuto e un particolare molto familiare che prima non aveva preso in considerazione. Si rese conto che non era stata soltanto l’impressionante somiglianza con la madre che l’aveva colpito, ma anche quel suo sorriso empatico, irresistibile. Il sorriso di Bruno! Certo, era la figlia di Bruno, tutto tornava.
Un’altra bizzarra sceneggiatura scritta dal destino con due attori, fino a poche ore prima, sconosciuti tra loro, come ignari protagonisti.
Da quel momento la vide con occhi diversi: anche se non lo sapeva, era completamente orfana. Sì, anche Bruno, il padre, era morto qualche anno prima in un incidente d’auto. Ora che avrebbe potuto finalmente conoscerlo, il destino ci aveva messo di nuovo lo zampino.
Si sedettero in un piccolo chiosco quasi sul mare, presero due sangrilla e continuarono a raccontarsi le loro vite e le ragioni del suo viaggio. Massimo disse: “Villa Blanca è sempre il centro delle grandi feste mondane?” Lei, guardandolo con occhi curiosi, rispose: “Villa Blanca è stata chiusa per molti anni, fu messa sotto sequestro dalla polizia. Ora, da circa vent’anni, è di proprietà di un ricco americano che ci torna ogni anno per due mesi. Ma tu che ne sai di Villa Blanca?” Massimo le raccontò quanto era accaduto tanti anni prima e l’amicizia con quel bizzarro personaggio. Scoprì così che quel bizzarro e simpatico personaggio era un affiliato alla camorra e la villa era un centro di smistamento della droga che, transitando per la Spagna, poi arrivava in Italia e nel nord Europa. Dopo il blitz la villa era stata messa sotto sequestro fino alla fine del processo. Massimo deglutì e, ripensando a Rocco, si dispiacque per la fine che aveva fatto.
